Scioperi con faccia di bronzo

Scioperi con faccia di bronzo Yoi e noi di Nicola Adelfi Scioperi con faccia di bronzo Sono due piccole notizie, le trovo per caso sui giornali, riassunte in poche righe. La prima riguarda l'aumento di salari e stipendi dal 1973 al 1975 nei maggiori paesi industriali. Il primato spetta all'Italia: fu dell'SO per cento. Al secondo posto è l'Inghilterra col 77 per cento. In fondo alla classifica trovo la Germania col 35 per cento e gli Stati Uniti col 24 per cento. Quali siano le condizioni di salute economica dei quattro paesi succitati, meglio non parlarne. La seconda notiziola riguarda gli scioperi. Anche qui noi italiani manteniamo saldamente il primato. Nello scorso agosto, il mese delle vacanze di massa, le ore scioperate furono più del doppio rispetto all'anno precedente: per la precisione, tre milioni e 500 mila ore contro un milione 415 mila dell'agosto 1975. Ma sarà sempre così nei prossimi anni? Forse no. Diciamo subito che ad agitarsi di più e a strappare gli aumenti più notevoli non sono le grandi confederazioni, Cgil-Cisl-Uil, ma i sindacati autonomi, ossia i sindacati che se ne vanno per i fatti propri senza il peso di ideologie politiche e che affrontano tranquillamente i cori di invettive che spesso suscitano con le loro richieste esose. Con facce di bronzo, nemmeno stanno a sentirli. Sanno ch'è fumo retorico. In Italia non è forse garantita la libertà di associarsi in sindacati? E dove sono le leggi che regolamentano gli scioperi? E allora? L'esempio più chiaro è lo sciopero negli ospedali. Particolarmente «selvaggio» quello di Napoli, ma non scherzano nemmeno a Milano e altrove. Pensate ai malati in lotta, ora per ora, contro la morte, e non più assistiti. Pensate ai loro congiunti. Qui siamo in presenza di una tragedia collettiva. E invece di scioperi selvaggi, non sarebbe più esatto parlare di omicidi a freddo? Per conto mio, ci sto. Tuttavia, per quanto aspre siano le nostre collere, esse non scalfiscono minimamente le facce di bronzo. Dalle loro espressioni beffarde traspare sempre la stessa domanda: in Italia è illimitato o no il diritto di sciopero? E se lo è, perché con le vostre chiassate volete vietarci di fare uso di quel diritto? Ricordatevi piuttosto che, come si dice a Napoli, «ca nisciuno è fesso». Se vogliamo essere eoe- renti, ci tocca ascoltare e tacere. A metà settembre un sindacatino autonomo, la Fisafs, con uno scarso sette per cento di aderenti tra i ferrovieri, sfidò le tre grandi confederazioni, forti di 150 mila iscritti, e riuscì a mettere in crisi il traffico ferroviario bloccandone alcuni punti nevralgici. E ora sempre la stessa pattuglia di autonomisti torna a sfidare le grandi armate della Cgil-Cisl-Uil proponendosi di scioperare per 72 ore da domenica 10 ottobre. L'esito può ritenersi scontato fin da ora: vincerà la pattuglia. E nuovamente vedremo autorevoli sindacalisti, politici e giornalisti aprire tutt'insieme un fuoco serrato contro gli autonomisti. Però saranno bordate a salve, fuochi fatui, esercitazioni retoriche. Quanti mesi durò il tambureggiante fuoco di male parole contro i piloti civili in sciopero, contro il loro sindacato Anpac, «l'aquila selvaggia»? Ma non per ciò «i baroni dell'aria» cessarono gli scioperi. Essi sapevano di cavalcare un formidabile cavallo da battaglia; un cavallo capace di infliggere perdite per centinaia dì miliardi all'economia nazionale. Scesero dal cavallo solo quando ebbero partita vinta. Sempre la stessa storia, sempre il piccolo e autonomo Davide che abbatte il gigante Cgil-Cisl-Uil, lo umilia e scredita. Per quanti abusi ed errori possa avere commesso il nostro Golia sindacale, non c'è proprio da rallegrarsi nel vederlo così mal ridotto adesso. Teniamo a mente che le grandi confederazioni dispongono di ottimi uffici studi e di altri strumenti per misurare la gravità della crisi economica; e che dì conseguenza si barcamenano al fine di contenere le richieste dei lavoratori nei limiti di quel poco che il convento può passare. In altre parole, le tre confederazioni sì muovono cercando da un lato di non alienarsi la fiducia delle masse lavoratrici e dall'altro di non contribuire allo sfascio della nostra economia. E' una tattica difficile, come camminare su un filo di rasoio. Viceversa gli autonomisti hanno in genere una vita facile. Per trascinarsi dietro molti lavoratori gli basta mettersi a gridare che essi devono avere salari e condizioni di lavoro consistentemente migliori. A chi gli dice che gli aumenti salariali e il carovita sono strettamente legati tra loro, gli autonomisti fanno orecchie da mercanti. E restano ugualmente sordi su discorsi sui debiti delle aziende, sull'insufficienza degli investimenti produttivi, sui pericoli della disoccupazione. Sono tutti discorsi a vuoto per gli autonomisti, e che riescono a eludere con slogan facilmente orecchiabili oppure mettendo nelle loro vetrine gli sprechi della pubblica amministrazione e gli scandalosi arricchimenti di speculatori di ogni risma, compresi i politici. Così male stando le cose, la logica più elementare vorrebbe che i partiti e le tre confederazioni si accordassero al più presto per estirpare il sindacalismo selvaggio, facendo finalmente le leggi prescritte dalla Costituzione in materia di sindacati e di scioperi. Tuttavia non stiamo a farci illusioni. Le vie della logica e quelle della politica sono spesso divergenti. Ora, tra le molte ipotesi che si possono formulare nell'ambito politico, non è da escludere quella di un compromessino contro i sindacati autonomi. Se avvenisse, sarebbe una ulteriore dimostrazione che in Italia non si governa senza intese col partito comunista, e un altro passo avanti verso quel «compromesso storico» che molti democratici continuano a vedere come l'anticamera a un regime tutto comunista, con i sindacati ridotti a bonarie associazioni dopolavoristiche e gli scioperi repressi con metodi polizieschi. Per chi ha buona memoria non sarebbe una sorpresa: intorno al 1920 fu anche la stanchezza degli italiani per gli scioperi continui e facili a screditare la democrazia e a sottometterci a una dittatura, quella fascista.

Persone citate: Golia, Nicola Adelfi