Perché i friulani cedono all'angoscia

Perché i friulani cedono all'angoscia DOPO IL SECONDO TERREMOTO Perché i friulani cedono all'angoscia In un articolo apparso su La Stampa del 27 maggio ho tentato di dare una spiegazione del singolare contegno tenuto dalla popolazione friulana di fronte alla terribile prova del terremoto, contegno che aveva stupito la maggioranza degli osservatori per la dignità, il riserbo, la contenutezza dei sentimenti e soprattutto per la prepotente volontà di impegnarsi in una immediata attività rivolta a ricostruire subito le case distrutte dal sismo. Questo comportamento in se stesso molto coerente, e non ovunque altrettanto diffuso nel nostro Paese, andava interpretato, dicevo, al lume delle esperienze storiche del popolo del Friuli, e cioè andava inteso come la messa in atto di un modello culturale di comportamento sociale che era stato prodotto per sopravvivere da una gente costantemente soggetta nel corso dei secoli ad un ininterrotto susseguirsi di invasioni, distruzioni e ricostruzioni dipendenti da eventi bellici e da i devastanti migrazioni di popoli. Queste dure prove, la cui storia può essere ricostruita per un periodo di oltre due millenni e mezzo, dai primi stanziamenti dei Veneti e poi dei Carni, fino alle devastazioni della prima guerra mondiale, che è stata combattuta in Italia quasi esclusivamente in questa regione, almeno fino a Caporetto, hanno contribuito a formare un tipico « carattere friulano », condiviso dai più e a proposito del quale scrivevo allora: « Le pulsioni emotive destate dalle crisi (...) vengono scaricale orientandole, per condizionamento culturale, verso un'intensa attività di lavoro, intesa a ricostruire le condizioni oggettive dalle quali dipende il recupero stabile dell'equilibrio psichico turbato ». E questo, a mio avviso, spiegava in larga misura l'origine di quel singolare atteggiamento che aveva tanto sorpreso gli osservatori. Questi stessi osservatori hanno notato dopo il terremoto del 15 settembre, altrettanto se non più violento del precedente, un profondo mutamento del comportamento collettivo. Nella popolazione colpita si è diffuso uno stato di ansietà estremamente grave e prima non apparente, si è manifestata una carica aggressiva insospettata, e hanno preso corpo proiezioni fantastiche e catastrofiche, in base alle quali si prevedono eventi apocalittici, come ad esempio il trasformarsi del monte San Simeone in un vulcano o l'imminente verificarsi di altre manifestazioni sismiche destinate a distruggere l'intera regione. * ★ Di pari passo, si sono accentuati certi usi locali tradizionali, quali il ricorso alle bevande alcoliche come mezzo per sopire le pulsioni emotive più acute, attraverso uno strumento di evasione. E a tutto questo si è aggiunto per la prima volta un brusco crollo nell'impegno attivo di lavoro, un vero e proprio cedimento di quella volontà prepotente, dichiarata con orgoglio nel mese di maggio, di ricostruire da soli le condizioni ambientali necessarie alla propria sicurezza di vita. Ci si può chiedere: hanno forse i friulani cambiato carattere? o erano superficiali ed inesatte le osservazioni fatte quattro mesi fa? Né l'una, né l'altra cosa. La spiegazione del fenomeno sta proprio in quello stesso modello culturale di cui ho ricordato sopra i lineamenti. L'intensa attività di lavoro manifestata all'inizio era da intendere come il modo culturale tipico per incanalare produttivamente le cariche affettive mobilitate dal trauma del terremoto. Ma la condizione essenziale perché questo comportamento potesse dare durevoli effetti stava e sta nel fatto che questa attività dia frutti reali e concreti, porti ! cioè veramente alla restaurazione di « quelle condizioni oggettive dalle quali dipende il recupero stabile dell'equilibrio psichico turbato ». Ora questo esito positivo non si è verificato, così che l'attività di lavoro viene privata di senso, appare ora come qualcosa di gratuito e di velleitario, che non conduce a nulla, e perde quindi ogni funzione catartica, rassicurante e redentrice. La « crisi della presenza », come avrebbe chiamato questo stato d'animo Ernesto De Martino, invece di placarsi, si esaspera di fronte all'esperienza di scacco e di sconfitta cui ha condotto quel modo tradizionale di comportarsi, che è stato applicato per far fronte alle conseguenze della catastrofe. QdsctrtemdromtmtotepecsslamcrclppAtamddscictsstrllpgdnfcduttddstctclnspczs Queste appaiono ora irrimediabili alle fantasie, eccitate e sconvolte, di persone che si trovano di colpo culturalmente e psicologicamente disarmate. Quali sono state le ragioni di questo fallimento? E' chiaro che esse sono date in primo luogo dalla incredibile continuità e intensità di un fenomeno che da quattro mesi sottopone a terribili e costanti tensioni decine di migliaia di persone, che sono come ogni essere umano dei delicati meccanismi psichici, e non dei mostri privi di sensibilità. In secondo luogo il vedere crollare inesorabilmente e brutalmente ciò che a mano a mano e con fatica estrema si riesce a ricostruire toglie, come si diceva, ogni senso razionale al lavoro, facendone qualcosa di patologico e di maniacale, se proseguito in simili condizioni. A questo si aggiunga la lentezza e l'incertezza imputata alle autorità regionali nel promuovere la ricostruzione. * * A questo proposito però c'è da precisare qualcosa. Non c'è dubbio che lentezze ci sono state e che errori sono stati compiuti, e anche gravi, come il ritardo nella decisione di ricorrere all'uso dei prefabbricati. Non voglio certamente assumermi la funzione di difensore d'ufficio della Giunta attuale. Ma in quale misura è responsabile di questo ritardo la Regione e in quale misura lo è un mito culturale locale, potentissimo, quello del « fogolar » come simbolo concreto di sicurezza e di protezione, in nome del quale (e sotto l'influsso di sollecitazioni polemiche imprudenti) si era preteso dalla maggioranza più attiva una fulminea ricostruzione — tecnicamente irrealizzabile d'altronde prima dell'inverno — dell'intero patrimonio di case distrutte o lesionate, senza passare attraverso la fase transitoria dei prefabbricati? Sta di fatto che la crisi psicologica irrisolta, anzi aggravata oltre ogni dire da questo complesso di eventi, ha dato luogo ad alcune forme che sono da considerare come gli esiti classici e prevedibili di una situazione acuta di crisi: la perdita subitanea di tensione che sfocia nell'abulia, e la reazione di fuga di fronte ad una situazione che appare incontrollabile. La prima reazione si è manifestata nella tendenza da parte dei più deboli ad abbandonarsi passivamente alle iniziative assistenziali offerte dalle autorità. La seconda si è concretata da parte di altri gruppi, dotati di maggiore iniziativa, nella ricerca di una nuova e diversa condizione ambientale, nella quale le loro iniziative di lavoro possano condurre ad un risultato concreto, sia pure rappresentato solo dal sicuro conseguimento di un salario, e non ancora dalla riconquista del bene fondamenta^ costituito dal « jogolar » ricostruito e sicu¬ ro. Questa seconda tendenza, che rischia di impoverire ulteriormente la regione di eccellenti lavoratori, trova purtroppo delle facilitazioni a realizzarsi nella presenza in regione di mediatori canadesi e australiani, che hanno ricevuto il compito di fare incetta di forza lavoro friulana che all'estero si compra a scatola chiusa per la sua ben nota qualità. Di fronte a questa situazione i sindacati si sono mossi per sollecitare un pronto ripristino dell'attività produttiva delle fabbriche e delle botteghe artigianali, per contrastare l'esodo. E questo è più che giusto, ma non basta. Anche in questo caso bisogna tener conto dei valori tradizionali. Il salario è un bene monetario di scambio che assume valore reale nella mentalità friulana solo quando si converta, nel caso nostro, nel bene che possiede il massimo valore d'uso reale e simbolico, e cioè in una casa, che viene vissuta non solo come strumento di conforto fisico e di protezione materiale, ma come simbolo di autonomia e di sicurezza, e come base per più vasti ed organici rapporti comunitari. Il professor Adolfo Petiziol, direttore dei servizi psichiatrici della provincia di Udine, con il quale ho discusso tutto l'insieme di questa nuova situazione, e che è stato per me la fonte di preziose informazioni, sottolinea fra l'altro un fatto che non faciliterà il compito delle autorità preposte alla ricostruzione. Il « bene casa » acquista il suo senso pieno per la mentalità friulana solo quando alla sua realizzazione non resti estraneo il futuro proprietario. Il friulano la riterrebbe qualcosa di alieno e privo di valore sacrale, se nella realtà della sua casa non dovesse entrare una porzione del suo sacrificio personale, non tanto monetario, quanto di fatica e di iniziativa, la quale faccia sì che essa risponda ai suoi desideri e la renda qualcosa di veramente « suo ». In che modo la soddisfazione di quest'esigenza potrà conciliarsi con una più razionale programmazione degli insediamenti è difficile stabilire a priori, ma è sicuro che non renderà più semplice il problema. In ogni caso è chiaro che la chiave fondamentale di soluzione della tragedia friulana — per chi abbia sperimentato di persona che cosa sia il terremoto e ne abbia veduto con i suoi occhi le conseguenze la espressione non apparirà certo né retorica né esagerata — sta nella ricostruzione la più rapida possibile, compatibilmente con i problemi tecnici, degli ambienti domestici famigliari. Essi soli possono veramente ristabilire quelle condizioni oggettive nelle quali possono essere evitati quei comportamenti irrazionali che ora si osservano, e che derivano da un equilibrio psichico profondamente turbato, come è ora il caso di troppi friulani. Carlo Tullio-Altan

Persone citate: Adolfo Petiziol, Carlo Tullio-altan, Ernesto De Martino

Luoghi citati: Caporetto, Friuli, Italia, Udine