I "musicals" di Broadway di Massimo Mila

I "musicals" di Broadway UNO SPRECO DI TALENTO IN SPETTACOLI DA DISCUTERE I "musicals" di Broadway Ci sono pornospettacoli che non vanno per il sottile accanto a riviste con il clima e i buoni sentimenti da libro "Cuore" (Dal nostro inviato speciale) New York, settembre. In America di questo mese è facile assistere a grandi spettacoli europei, sentire la Scala, l'Opera di Parigi, l'Orchestra Scarlatti di Napoli diretta da Franco Caracciolo, insieme col coro della Rai diretto da Antonellini, ma è meno facile penetrare nei meandri del teatro americano. Certo, il tratto di Broadway compreso fra la 42° Strada e Central Park, la sera è tutto uno sfavillare di luci smaccate che invitano i gonzi con promesse di spettacoli sensazionali, a base di hot girls, ma quelli veramente buoni sono esauririti per mesi di prenotazione, e negli altri è facile incappare in bidoni. (Di offBroadway neanche parlare: se non si è guidati, è un mistero). Respinto con disprezzo dal botteghino dello Shubert Theatre dove da mesi si rappresenta il successo dell'annata, A chorus line, ripiego su un teatro lì vicino, il Morosco, dove mi vendono con facilità una poltrona di terza fila per Let my people come. L'assonanza un po' evangelica del titolo mi fa pensare a qualche spettacolo religioso. Be', pazienza, dopo tutto anche una sacra rappresentazione al piede dei grattacieli può essere interessante. Poi mi ricordo vagamente che questo titolo l'aveva nominato Furio Colombo in una corrispondenza della Stampa, ma non so più che cosa ne dicesse. Entro, mi siedo, lo spettacolo comincia, in principio è un musical qualunque, pieno di belle ragazze e di aitanti ballerini, agilissimi, uno di colore, poi, che sembra una tigre. La musica e un frastuono implacabile di rock a tutto volume, eseguito con efficienza impeccabile da alcuni giovanotti in fondo al palcoscenico: siccome non cessa mai, salvo che per le scenette recitate, finisce per non percepirsi più, come le cascate del Niagara. Non c'è una trama: è una successione dì balletti e di gags inanellati senza interruzione nel corso dei due atti. Ma altro che sacra rappresentazione! Sono capitato in un porno-musical d'una sconcezza indescrivibile, che infatti perfino qui ha fatto scandalo. Battute da trivio e doppi sensi da rivista goliardica dì altri tempi, anche se la più gran parte mi sfuggono, per la mia scarsa conoscenza dell'inglese in tema eroticosessuale. Ma certe scene non occorre saper l'inglese per capirle. Quattro ragazze sedute in quadrilatero, in mezzo a loro una vecchia mammana (un attore travestito, di trivìalissima, ma irresisti¬ bile vis comica; distribuisce a ciascuna una grossa banana, ch'esse cominciano a sbucciare con gesti sapienti delle dita affusolate. (Naturalmente hanno scelto quattro attrici con mani meravigliose). Poi queste banane non le mangiano realmente ma le succhiano, o al massimo le mordicchiano in gola, pronunciando ogni tanto commenti che non capisco, ma che fanno sbellicare dalle risa la platea. La scenetta dura dieci minuti buoni. Da metà del primo atto in poi la compagnia si spoglia degli abiti e tutta la compagnia — purtroppo anche gli uomini — lavora nel costui me di Adamo ed Eva prima che mangiassero il pomo. Ciò posto, bisogna riconoscere che almeno sette o otto elementi della numerosa compagnia sono autentici animali da palcoscenico, scat- tano come atleti, tengono la I scena col magnetismo d'una presenza tesa al massimo della dedizione, si prodigano senza risparmio a saltare, ballare, urlare, cantare, con uno slancio, un'esattezza professionale e una convinzione, degni di miglior causa. Una delle ballerine ha una faccìna sofisticata da intellettuale schizzinosa, zazzeretta corta, naso sottile e aquilino, impennacchiata di piume e collane, fisicamente non le daresti un soldo, sembra una di quelle smaniose che appena le tocchi frignano: — No, mi fai male. Dio come sei brutale! — All'anima! Quando si scatena è un demonio: turbina intorno al palcoscenico come un ciclone, leggera come un uccello vola sopra un cassone alto almeno un metro e mezzo, e lì sopra si contorce, sì piega, si snoda come se non avesse ossa. Un'altra è francamente brutta: piccolotta, grosse gambe corte invase dalla cellulite, lunga faccia cavallina da monello di strada, una caschetta da ciclista in testa, mastica gomma senza interruzione. Ma è una buffona di prim'ordine, bravissima a farsi gioco della propria bruttezza. E' lei che a metà atto dà il segnale delle ostilità sul fronte del nudo, sollevandosi la veste fino a metà pancione, e sotto non ha niente. Finito lo spettacolo, esaurita la cerimonia degli applausi e delle ripetute passerelle, con grande ballonzolio di attributi maschili e femminili, mentre gli altri attori si ritirano nelle quinte, una delle attrici — la più j carina, anche se non delle più brave — scende in platea, vestita solamente delle scarpe e s'intrattiene affabile con alcuni signori piuttosto maturi, che le fanno cerchio intorno rispettosamente per chiederle... Che cosa? un appuntamento? macché! un autografo sul programma, come se fosse la Duse. La sera seguente un'anima pietosa, preoccupata ch'io ritorni in Europa con un'idea troppo nera dei teatri di Broadway, mi procura un biglielto per Shenandoah. Qui siamo all'estremo opposto: è un musical con pretese letterarie e musicali, d'argo- mento storico, patriottico, e dificante, e profondamente immorale. Siamo al tempo della guerra civile. Shenandoah è un paese della Virginia dove vive Charlie Anderson, un anziano ma aitante agricoltore, vedovo, con sei figli tutti belli e biondi come vichinghi, una nuora che gli dà un nipotino e resterà vedova nel corso dell'azione, una figliola che va sposa a un timido soldatino, spedito crudelmente in linea da un sergente dì ferro subito dopo la cerimonia nuziale. La guerra civile irrompe nei campi della Virginia e insidia la pace laboriosa dell'onesta famiglia Anderson, ma loro non ne vogliono sapere: loro vogliono soltanto vivere in pace, e questa pace difendono anche a suon di pugni e di fucilate. Loro non sono né sudisti né nordisti, loro sono per la famiglia, la chiesa, il lavoro nei campi, la patria una e indivisa, ossia sono dei perfetti qualunquisti. Ci scappa il morto, anzi ne scappano due o tre, e l'ultima scena ripete abilmente una delle prime: nel¬ la chiesetta del villaggio gli Anderson arrivano come sempre in ritardo, quando la funzione è già iniziata; ma questa volta il pastore non li rimprovera mentre si avviano ai loro banchi vuoti, ma lì saluta commosso, perché la famiglia Anderson, sempre vigorosa ed esemplare, questa volta è però decimata, ed il ragazzino Robert arriva per ultimo zoppicando, coi calzoni sbrindellati e una gamba insanguinata. Il clima è quello d'un racconto mensile del Cuore sceneggiato, ma anche qui, professionalmente parlando, artisti di tutto rispetto, polivalenti nella recitazione, nel canto e nel ballo, anche se un po' soverchiati dalla superiore gigioneria del protagonista, John Cullum, un attore di fama, che Richard Burton aveva scelto come Laerte per il proprio Amleto. Anche una delle due sole attrici in questo spettacolo tutto d'uomini rudi e di buoni sentimenti. Donna Theodore, ha al suo attivo una larghissima esperienza teatrale e sa ballare e cantare tanto bene quanto recitare. Un suo duettino con David Vann, ragazzino di colore che insieme col bianco Mark Perman esercita il solito ricatto strappalacrime dei bambini in scena, è un numero altrettanto divertente che i pornoballetti dell'altro spettacolo, e insomma anche qui l'efficienza professionale riscatta la stupidità dell'innocenza, come là riscattava quella dell'indecenza. Alcune delle canzonette di Peter Udell sono decisamente graziose, la musica di Gary Geld è nel genere di un country-song inautentico ma abilmente rifatto. L'orchestrazione (che qui, come nel cinema, è sempre una fase distinta dalla composizione) è dì Don Walker e la copiosa orchestra, quasi sinfonica, è diretta dì Richard Parrinello, un musicista che ha studiato a Tanglewood e ha lavorato anche nella Boston Opera Company. La coreografia è di Robert Tucker. il testo, di James Lee Barrett, è la trascrizione teatrale di un film di successo del medesimo autore, che aveva per protagonista James Stewart, e qui fornisce a Robert Cullum l'occasione di sentenziosi monologhi. Insomma, con Shenandoah siamo al musical d'alto rango, a mezza strada fra le tentazioni del cinema, della commedia e del melodramma. Tutto sommato, i fescennini di Let my people come rendono un suono, se non altro, più genuino. Massimo Mila New York. Le luci di Broadway: gli spettacoli migliori sono esauriti per mesi di prenotazioni (telefoto Ansa)

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