Tutto come prima in Perù di Francesco Rosso

Tutto come prima in Perù VIAGGIO TRA LE DITTATURE MILITARI DEL SUD AMERICA Tutto come prima in Perù Preso il potere nel '68, i generali avevano promesso una loro rivoluzione, etnica e sociale, ed avevano proclamato 1' "indianità" del Paese - Ma la vita degli indios e dei meticci non è cambiata, nonostante la riforma agraria ■ Ora, un silenzio rassegnato (Dal nostro inviato speciale) Lima, settembre. Una calma sonnolenta, fatta di rassegnazione più che di indifferenza, avvolge questa già splendida capitale vicereale; dopo i tumulti del 2 luglio scorso, con un solo morto, la gente ha ripreso il ritmo di sopravvivenza consueto, fatto di silenzio e di senso dell'ineluttabile. Guardo la gente camminare per le strade e mi convinco che qui non può accadere nulla di risolutivo, definitivo. Gli indios, i meticci, che sono la maggioranza della popolazione, portano nel sangue pesante il senso della fatalità e della sottomissione. Avviene, di tanto in tanto, un empito di disperazione, ma poi tutto si calma rapidamente. E nemmeno le notizie che vengono dai paesi vicini commuovono molto indios e meticci; arresti e sparizioni massicce in Cile, atroci fosse comuni con trenta cadaveri dilaniati in Argentina? I giornali vi dedicano poche righe, che la gente legge frettolosamente. Sono cose che non li riguardano, vivono in un altro mondo, in una dimensione diversa, che gli impedisce la commozione. Hanno fatto una rivoluzione nel 1968, almeno così è stata chiamata, che non ha cambiato quasi niente. Un gruppo di generali si sono presentati una notte nel palazzotto in stile neoclassico costruito di recente su quello che fu la sede vicereale di Francisco Pizzarro, hanno prelevato il presidente eletto Belaunde Terry, lo hanno messo su un aereo, spedito in esilio, e si sono insediati al suo posto. Cambieremo tutto, dissero i generali; la nostra è una rivoluzione originale, né comunista, né imperialista. Hanno elaborato una riforma agraria che era indispensabile togliendo ai terratenientes latifondi di esten- sioni incredibili, li hanno suddivisi in lotti e li hanno distribuiti ai contadini che ne avevano diritto. Poi hanno incominciato con la demagogia, si riempivano la bocca di parole sonore, e non combinavano niente; si limitavano ad intrigare l'uno contro l'altro, col povero Velasco Alvarado, generale presidente, già malato, che aveva sempre dinanzi agli occhi l'ombra di Belaunde Terry, l'esiliato, se non quella di Pizzarro, pugnalato a morte proprio in quel palazzo ove lui risiedeva. Una delusione Avviarono alcune operazioni che fallirono in partenza. Le « comunità sociali » ad esempio, parvero loro una grossa innovazione. Le aziende industriali diventavano di proprietà di tutti coloro che vi lavoravano, padrone compreso. Avevano un solo difetto, che non distribuivano utili a nessuno, e finirono per diventare pesi morti per il bilancio dello Stato. Avviarono il Sinamos, una sigla che significa « senza padrone » ma che in realtà è composta dalle iniziali di « Sistema nacional de apoyo a la movilización social », un'opera di assistenza spirituale se vogliamo, per riscattare dalla secolare miseria ed ignoranza le masse di indios e meticci che vivono sulle Ande e nelle orrende barriadas delle città. Divennero subito strumento di propaganda dei partiti, specie dei comunisti, e furono abbandonati al loro destino, fino a diventare simbolo della repressione. Quando c'è un po' di maretta politica in Perù, i primi edifici ad essere devastati e incendiati sono le sedi del Sinamos. Non siamo comunisti, dicevano i generali compagni di Velasco Alvarado, e non lo erano, nonostante la riforma agraria e la nazionalizzazione delle miniere di rame e stagno sfruttate da società americane. I rapporti diplomatici con Fidel Castro furono ristabiliti solo nel 1970, dopo il terremoto che provocò quarantamila morti. Cuba mandò aiuti in gran copia, come la Russia, come gli Stati Uniti; ma in quella occasione nessun Paese innalzò il vessillo del « io ho fatto di più », tutti lavorarono anonimi e con fervore, come dev'essere il vero aiuto nella sciagura. Eppure li dicevano comunisti, marxisti, trotzkisti. Evano generali che, forse, saprebbero fare la guerra, ma non sapevano governare. D'improvviso scoprirono la indianità del Perù, nel senso che la maggioranza della popolazione è india e meticcia. Riscoprirono Tupac Amaru, il cachique di Cuzco che nel Settecento si era ribellato agli spagnoli ed aveva alimentato la guerriglia nelle Ande. Fu catturato con tutta la sua famiglia, ucciso, legato a due cavalli aggiogati in direzione opposta, e squartato. Il nome di Tupac Amaru, con una facile deformazione, fu assunto dai guerriglieri uruguaiani, i tupamaros, anch'essi debellati dai generali. Il ritratto di Tupac Amaru, dipinto con un po' d'immaginazione da un pittore locale, fu situato al posto d'onore nel palazzo presidenziale, dove prima troneggiava quello del conquistador Pizzarro, il suo profilo fu coniato sulle monete e stampato sui biglietti di banca. Le monete, i soles de oro, sotzo spariti dalla circolazione, già rarità numismatiche, le banconote incominciano a rarefarsi, sostituite da altre con nuovi simboli. Anche la impresa di tradurre in scrittura la lingua quechua, che gli indios parlano da sempre, ed imporla come lingua nazionale, finì nel nulla. Intanto, perché solo il quechua, la lingua parlata nelle Ande settentrionali, e non anche Z'aimarà, parlata in quelle meridionali? Comunque, l'idea parve buona, e fu affrontata l'impresa di preparare i libri di testo per le scuole elementari; l'insegnamento dovrebbe incominciare l'anno prossimo, ammesso che ci siano i maestri sufficienti per insegnarlo e tanti ragazzi che vadano a scuola. Sulle Ande e nelle grandi barriadas cittadine l'analfabetismo raggiunge quasi il novanta per cento, anche se esistono scuole in cui si insegna in lingua spagnola; i genitori hanno altri pensieri che non mandare i figli a istruirsi. Resta perciò un fatto commovente, ma non altro, l'impegno cui si è dedicato per anni Roberto Santucho, il capo dell'Erp argentino ucciso di recente dall'antiterrorismo, che ha tradotto in quechua « Il Capitale» di Marx per poter diffondere gli ideali marxisti, e scatenare la guerriglia, tra gli indios andini. Era un sogno da idealista puro, anche se sapeva usare il mitra come pochi; non era riuscito ad alimentare la guerriglia nemmeno Hugo Bianco, peruviano, meticcio, che parlava correntemente il quechua, ma era così isolato tra quelle comunità che di politica sanno poco o nulla, che fu catturato con estrema facilità dalle truppe inviate a scovarlo tra i dirupi delle Ande attorno a Puno. Fu l'ultimo guerrigliero peruviano autentico e quando Velasco Alvarado salì al potere, pensò che poteva essergli utile, e lo fece uscire di prigione. Si pentì quasi subito, perché Hugo Bianco, da buon guerrigliero, incominciò a mettergli contro i militari estremisti. Il gen. Velasco Alvarado lo fece ricatturare, lo mise su un aereo e lo spedì in esilio. Ritornò quando il gen. Francisco Morales Bermudes Cerutti, sposato a Rosa Pedraglio (siamo fra oriundi italiani) depose Velasco Alvarado e prese il suo posto alla presidenza. Ma non potè rimanere a lungo a Lima, il nuovo presidente peruviano, a sua volta, lo fece mettere su un aereo e lo mandò in esilio. Ora è in Svezia, che fa propaganda contro i generali del suo Paese. Quali comunisti Conversando con amici, domando in quale considerazione era tenuto José Carlos Mariategui, il meticcio fondatore del partito comunista peruviano, ma assai poco ortodosso; predicava che la rivoluzione bisognava farla tra i veri oppressi, gli indios delle Ande, ed al congresso dei comunisti sudamericani di Montevideo fu bellamente espulso dal partito. Mariategui, un autodidatta, scrisse alcune opere fondamentali sulla cultura peruviana e sulle vie peruviane al comunismo, opere pubblicate di recente anche in Italia da Einaudi. La risposta è sempre la stessa: « Mariategui? Ma è una scoperta recente degli intellettuali di sinistra europei, qui non se ne è mai parlato, quasi nessuno sa che sia esistito, nemmeno fra i comunisti ». Mi consigliano di guardare con una certa attenzione i parabrezza dei camion, ed io obbedisco; bene, ho veduto molte sflhouettes di Che Guevara e di Fidel Castro, nemmeno una di Tupac Amaru o di Mariategui. Ed i camionisti, oltre che indios e meticci, sono in stragrande maggioranza comunisti. Nonostante gli sforzi, i tentativi di imitare l'esempio del Messico che ha quasi totalmente cancellato i segni della cultura coloniale per tornare alle fonti della pro¬ pria indianità azteca, il Perù rimane il Paese davvero folgorato dal suo passato spagnolo e vicereale. Da oltre quattro secoli, la mummia di Francisco Pizzarro se ne sta adagiata in una bara di cristallo sormontata da un leone di bronzo, in una speciale cappella della cattedrale di Lima, accuratamente pennellata con non so quale vernice per difenderla dalle tarme che già l'hanno bucherellata non poco. Il ritratto del conquistador è stato rimosso dal palazzo presidenziale, ma chi oserebbe toccare la mummia di Pizzarro, traslarla che so, in un cimitero qualsiasi, o restituirla alla Spagna, imitando in ciò i sudanesi che, liberatisi dal vincolo coloniale, restituirono alla regina Elisabetta la statua del gen. Gordon, il conquistatore del Sudan? Il Conquistatore Ai tempi di Velasco era stata ventilata l'idea di spostare almeno la statua equestre di Pizzarro, un buon pezzo di scultura che ricorda alla lontana Verrocchio ed il Colleoni, che si erge dominatrice a fianco del palazzo presidenziale, ma poi non se ne fece nulla, e Pizzarro in bronzo, a cavallo con spada e scettro, rimane dove lo hanno messo, come nella cattedrale vi rimane la sua mummia, divenuta attrattiva di curiosità turistica. « Vuol vedere el conquistador? — dice un ragazzotto che tiene le chiavi del gran cancello di ferro —; fa dieci soles ». Poco più di cento lire, nemmeno molto per vedere le spoglie mortali rinsecchite del condottiero che, con un esiguo manipolo di mezzi banditi, un centinaio di cavalli, due o tre bocche da fuoco, conquistò in nome della Spagna il più fiorente e civile impero dell'America Meridionale. Cammino lungo gli affollati jirones, cfte sono le nostre vie, tra indios e meticci che tentano di sbarcare il lunario come possono, vendendo paccottiglia d'ogni genere, cinghie, portafogli, billette in similpelle, pettinini ai clastica, magliette di non si sa quale fibra, sandali di plastica e sento pesare la loro indifferenza a tutto, tranne che ai morsi della fame, o ad appetiti più bassi. Donne e uomini se ne stanno accosciati in silenzio, manipolando con mani scure quella povera merce per metterla in bella evidenza, per attirare l'attenzione degli eventuali acquirenti più con l'ordine dato alle cose che con il convincimento della voce. E alla fine si comprende perché il Perù è com'è, gravato da pesi che non riesce e scrollarsi di dosso. Fatalismo, inerzia, pigrizia, lussuria, dicono per spiegare tale atteggiamento, e questo miscuglio può anche influire sul temperamento rassegnato dei peruviani, ma c'è soprattutto la certezza dolorosamente acquisita da secolari esperienze che non muterà mai nulla, qualunque sia il governo che andrà nel palazzotto di Plaza de Armas dominato dalla statua di Pizzarro a cavallo. Sono abituati a quest'avvilente inerzia da sempre, fin dal tempo in cui dominavano gli Incas; ma allora, almeno. Vinca provvedeva a che tutti avessero il necessario per vivere. Oggi, tutti coloro che entrano nel palazzo che fu di Pizzarro affermano di voler fare altrettanto, ma poi si fermano a mezza strada, perché non riescono, o non hanno interesse a realizzare le loro promesse demagogiche. C'è stata una sola realizzazione, la riforma agraria che, per motivi di cui parlerò in una prossima corrispondenza, non sarà mai più rimessa in discussione, nemmeno dal gen. Morales Bermudes che è siato definito un conservatore solo perché ha deposto il presunto comunista Juan Velasco Alvarado, ora ammalato in un ospedale di Washington. Ma non cambierà nulla, nemmeno ora. Francesco Rosso