Solo profumo

Solo profumo VIAGGIANDO NEL VINO Solo profumo Da ragazzo, Renato Castellani aveva creduto innocentemente nel fascismo. Apri gli occhi alla realtà solo qualche anno prima della guerra. Spero di non offenderlo se dirò, qui, che Libero Solaroli, liberissima persona sebbene antico direttore di produzione alla Cines, e, con Solaroli, io stesso, fummo gli amici che lo aiutarono a vedere. Vide, certo, vide. Ma soffrì quasi di un trauma: e ne cavò uno sconforto esistenziale e una sfiducia i'ella politica che sono alla base della scelta del soggetto del suo primo film, Un colpo di pistola, dalla novella omonima di Pusckin, vicenda disperatamente romantica, chiusa nei problemi psicologici di un solo personaggio. Il film è del 1941. Come prima opera di un giovane, sbalordì. Visto oggi, ancora commuove, ancora splende. Dopo la guerra, Castellani, al pari di ogni altro animo bennato, sperò in un rinnovamento più o meno rivoluzionario dell'Italia. Dal '46 fino al '51, nei suoi film neorealistici (Mio figlio professore, Due soldi di speranza, E' primavera, ecc.) assistiamo a una straordinaria esplosione di affettuoso interesse per le classi popolari e, insieme, a uno stile cinematografico completamente nuovo: interpreti presi direttamente dalla vita invece di attori, e un continuo movimento impresso alla macchina da presa, una tecnica che intuì e anticipò l'elasticità, la scorrevolezza, la fluidità del documentario televisivo. Castellani nel '46 cominciò a girare Mio figlio professore facendo eseguire dal cameraman, incessantemente, i più bizzarri movimenti di macchina. Fece di più. Sempre alle prove, ma non di rado anche quando si girava, prese lui stesso la macchina da presa sottobraccio: e la spingeva, l'arretrava, la torceva in ogni senso, seguendo a volte solo le gambe o il dorso o il capo di un personaggio, altre volte solo la direzione dello sguardo, e altre ancora non seguendo più un'immagine ma una idea astratta, il pensiero di se stesso regista. E furono film vivacissimi, divertenti, e, allo stesso temno. molto raffinati. ★ * Ma quando, con gli Anni Cinquanta, si capì che il rinnovamento in cui tutti avevamo sperato era stato un'illusione, Castellani soccombette di nuovo alla sfiducia: ripercosso dall'antico trauma, tornò con Romeo e Giulietta a soggetti letterari e a uno stile estetizzante. Fu allora che, avendo comprato a Grottaferrata una bella tenuta, restaurò la vecchia casa colonica e si mise a lavorare intorno alle vecchie vigne e a pigiare vini di sua invenzione. Il vino come transfert di una rivalsa nei confronti di una delusione artistica e morale? il vino come parziale consolazione? Arrivai da Castellani verso le sei del pomeriggio. Ci ero già stato molte volte; ma cominciammo subito con il giro delle vigne: finché c'era luce, volevo rivederle. Era la più favorevole posizione di tutti i Castelli: orientate a sud-ovest, drappeggiate su morbidi dossi che si alternavano a vaste conche, scendevano dolcemente verso quell'immensa pianura, prima coltivata e poi arida o incolta, che diventa a poco a poco l'immenso tritume edilizio di Roma: all'orizzonte, nel sovrastante pulviscolo dorato, contro la luce del sole al tramonto, si distingueva solo la cupola di San Pietro. Finito il giro, risalivamo verso casa. « Lo sai che ho venduto tutto? » mi disse di colpo. « Tutto? Ma allora, il vino? ». « Il vino, per contratto, continuo a farlo io. La casa e la cantina, naturalmente, me le sono tenute: con un po' di terreno intorno. Ho venduto tutto il resto. Era troppo grande ». Entrammo in casa: arredamento squisito, ceramiche disegnate da Castellani stesso, mobili tutti antichi, strani, bellissimi. La cantina era in fondo: scendeva e penetrava la viva roccia: da ogni lato, in ordinate cataste, le bottiglie coperte di bianche muffe spettacolari. E il vino? il vino, com'è? Se, per un'improbabile eredità o una ancor meno piobabile compera, fosse capitata a me la stessa fortuna, sono certo che avrei coltivato le vigne coi sistemi e con le uve locali e tradizionali, e che avrei fatto il vino come da secoli lo si fa a Grottaferrata, limitando le migliorie moderne a minimi accorgimenti. Renato Castellani, invece, lesse e studiò collo scrupolo che gli è abituale i più recenti testi di vitivinicultura, e poi, abbandonandosi al suo dèmone inventivo, rivoluzionò tutto quanto: l'antico e il moderno. Quando si riposa, quando ra- giona o racconta tranquilla- mente, gli occhi marron di Re- nato hanno uno sguardo dolce e malinconico: ma quando par- la di un film o di qualunque altra opera che vuol fare, e anche quando ne rievoca l'im- presa, sfavillano di un'arguzia, di un'animazione frenetica, quasi diabolica: « Il segreto del vino », gridò: « il segreto del vino è uno solo: travasarlo, e, travasandolo, lasciarlo cadere dall'alto, così che prenda aria, aria, si ossigeni! ». Trasecolo. Finora tutti gli enologi che conosco mi hanno sempre detto l'esatto contrario: « I travasi sono necessari, vitali, importantissimi: ma ciò che più importa, nei travasi, è che il vino non venga mai, neppure per un istante, a contatto con l'aria. L'ossigeno lo distrugge! Bisogna che le manichette combacino, accuratamente avvitate, con la entrata e con l'uscita dei recipienti, e che le guarnizioni garantiscano una chiusura ermetica! ». ★ * Sette, oltre quello dell'ossigenazione, sono i precetti di Castellani vinificatore: 1) scegliere con pignoleria le uve, scartando i grappoli immaturi, o troppo maturi, o in ogni caso difettosi; 2) diraspare; 3) non usare mai bisolfito, neanche in minime percentuali; 4) far durare poco la prima fermentazione, al massimo cinque giorni; 5) durante la prima fermentazione, follare cinque o sei volte: ma limitandosi a scalzare e a levare la parte superiore del cosiddetto cappello galleggiante, cioè la parte delle mosche, che è più leggera, e lasciando che il resto, che è più pesante, affondi nel mosto da sé; 6) considerare la prima svinatura come l'optimum assoluto, e non mescolarvi poi nessun'altra svinatura, neppure dello stesso vino; 7) procedere alla seconda svinatura dopo dieci giorni, e considerarla semplicemente come un di più, senza darvi importanza. Ignoro quanto valore abbiano questi precetti. Mi paiono abbondantemente e variamente contraddetti dalle più comuni pratiche artigianali: di quelle più moderne e paraindustriali naturalmente non parlo nemmeno. Però: però delle bottiglie che questa e altre volte ho assaggiato da Castellani, almeno cinque su dieci sono sempre deliziose. E la meraviglia mi pare soprattutto questa: che il vino buono possa essere prodotto anche così: dalla fantasia più sfrenata, sperimentale, individuale. Innumerevoli, a esempio, i travasi che Castellani opera in damigiana, in botte, talvolta anche in bottiglia, durante i primi cinque o sei anni, e sempre col metodo, che qualunque esperto giudicherebbe assurdo, di una voluta, esasperata ossigenazio- ne. E il risultato finale, trat tandosi esclusivamente di vini bianchi, è addirittura sbalor ditivo: capita infatti ai suoi vini tutto l'opposto di ciò che capita agli altri: i giovani sono meno buoni dei vecchi, nei giovani c'è sempre un retro gusto più o meno sgradevole di lievito o di feccia, che di¬ minuisce risalendo nel tempo e che sparisce man mano che si assaggiano, in ordine cronologico inverso, le bottiglie degli anni prima. « Tutti gli anni viene diverso! » esclama adesso Renato, come se tornasse a provare la gioia, l'entusiasmo della sorpresa provata la prima volta che fiutò ognuno dei suoi vini: « e il profumo di ciascuno continua, negli anni, riconoscibile e diverso, diversissimo, dal profumo di tutti gli altri! Tengo qualunque scommessa: senza assaggiare, soltanto fiutando il secondo bicchiere, sono in grado, ogni volta, di dire: 57,60,64! ». Perché lui non beve: fiuta soltanto. Fiuta a lungo. E capisce e gioisce soltanto così. Non lo dice pubblicamente né in segreto, e neanche a me solo, ma crede in cuor suo, crede fermamente che il vino non sia fatto per bere. Resta da rivelare l'ultima, o piuttosto la prima di tutte le sue follie enologiche: la composizione delle uve. Da tempo immemorabile, il Grottaferrata, come qualunque altro bianco dei Castelli Romani, è un prodotto della seguente mescolanza: per il 90 per cento Malvasia bianca di Candia, Malvasia rossa, Trebbiano giallo, Trebbiano verde, Trebbiano toscano; e per il 10 per cento Bellone, Bombino bianco, Bonvino, Cacchione, Malvasia del Lazio, Malvasia puntinata. Ecco, ora, la mescolanza Castellani: per il 50 per cento Malvasia e Trebbiano con piccole quantità delle altre minori uve tradizionali che si trovano in tutte le vigne della zona; ma poi, per il 25% Moscato d'Amburgo, per il 12,5% Tocai Friulano; per il 12,5% Riesling Italico. La scelta del Tocai e del Riesling denuncia l'intenzione di ottenere qualcosa di più leggero del solito vino dei Castelli; la scelta incredibile del Moscato d'Amburgo, quella di ottenere a ogni costo un vino molto profumato. Ripeto: il risultato è sempre vario ma, almeno per metà delle bottiglie, sempre stupefacente. Un vino unico: o, meglio, una serie a sorpresa di vini ciascuno dei quali è unico. Renato non beve: e non vende. Regala le bottiglie vecchie agli amici, oppure le stappa per loro, li guarda mentre bevono e assapora ogni volta, felice, il profumo del secondo bicchiere, che ha riempito per un terzo. Tra i misteri del vino che ho sfiorato in questo viaggio, nessuno, in fondo, mi affascina di più. Mario Soldati

Luoghi citati: Amburgo, Grottaferrata, Italia, Lazio, Roma