Svizzera maltrattata di Vittorio Gorresio

Svizzera maltrattata GLI ELVETICI NON GODONO DI BUONA STAMPA Svizzera maltrattata Da Voltaire ad oggi, è stata definita spesso un Paese egoista e noioso, di banchieri e albergatori - Queste critiche nascono anche da invidia e rancore - Ma episodi recenti confermano il forte senso degli affari Zurigo, settembre. La Svizzera non ha buona stampa tra noi. Un po' dev'essere a causa della facile invidia che si prova per un Paese prospero e sicuro, così bene ordinato in confronto a noi; e un po' io credo che sia una forma di sospetto nei riguardi di gente così vicina e così diversa (quasi per vendicarci la definiamo: così noiosa!). Ma soprattutto è una specie di rancore, forse non infondato e comunque antico, il quale nasce dalla convinzione da secoli diffusa che gli svizzeri siano i più esosi ed i più avidi del mondo, profittatori imbattibili dalla concorrenza, sfruttatori impassibili sordi ai richiami della coscienza. E' di Voltaire l'esortazione: « Se vedete un banchiere svizzero saltare dalla finestra, saltate subito dietro di lui. C'è sicuramente da guadagnare dei soldi ». Di Chateaubriand è la condanna: « Neutrali nelle grandi rivoluzioni degli Stati che li circondavano, gli svizzeri si arricchirono sulle sventure altrui e fondarono una banca sulle calamità umane ». Povera Svizzera. Anche a riguardo di questioni più modeste essa difficilmente trova od ha trovato negli anni comprensione o indulgenza. Prima dell'ultima guerra, quando non si era ancora trasformata nella florida nazione industriale che è oggi, le toccavano accuse limitate all'ambito della sua economia di allora, prevalentemente turistico-alberghiera. Ma già erano un indice del rancore che ho detto, ed io con gran divertimento ne lessi un giorno un mirabile esempio nel Diario del maresciallo d'Italia e collare dell'Annunziata Enrico Caviglia, alla data del 25 luglio 1931: « La Svizzera è sempre più uggiosa con le sue montagne, i suoi panorami artificiosi, imborghesiti, peggio, "inlocandati": ha perduto ogni incanto, non interessa più (...). Lo straniero in Isvizzera è considerato come un portamonete, dal quale si estraggono legalmente i soldi. La legalità è stabilita dagli svizzeri, e tutto è tariffato, dal sorriso dell'albergatore ai cento passi che i viaggiatori hanno diritto di fare fuori dell'albergo sotto la pioggia ». Oggi, naturalmente, le accuse e le proteste vanno in scala più grande, ed oltre a quelle dei forestieri da Voltaire a Caviglia ce ne sono anche svizzere. Racconta Jean Ziegler, deputato socialista al Parlamento di Berna e professore di sociologìa nell'Università di Ginevra, un colloquio ch'egli ebbe anni or sono con Nello Celio, allora responsabile delle finanze della Confederazione. Ziegler gli disse della propria intenzione di presentare un progetto di legge contro l'immigrazione in Svizzera dei capitali stranieri, in particolare dai paesi sottosviluppati, e Celio era d'accordo. Il problema dei capitali in fuga, « del sangue dei popoli poveri rifluente nelle banche di Zurigo », lo angustiava sinceramente. Egli difatti disse a Ziegler che quell'angoscioso fenomeno era causa diretta della miseria, della fame, della morte di tanti uomini che vivono una precaria esistenza nella periferia del mondo industriale. « Allora voi accettate la mia proposta, la appoggerete? », gli domandò speranzoso Ziegler. « Eh no — rispose Celio —; se in conformità delle mie convinzioni io la j accogliessi, quello stesso denaro finirebbe a Monaco o nelle isole Bahamas ». Se c'è denaro in giro non bisogna che sfugga alla Svizzera. Una volta, alla conferenza internazionale dei diritti dell'uomo riunita a Teheran, il rappresentante elvetico, che era l'ambascia- j tore Auguste Lindi, disse tra l'altro: « Il mio Paese condanna la politica di apartheid praticata nel Sud Afri- ca ». Non era dire una stranezza, ma fu quanto bastò per suscitare una tempesta nel Parlamento di Berna, dove il consigliere nazionale Paul Eisering propose che Lindt fosse deplorato o formalmente sconfessato: « Può darsi che l'apartheid sia contraria ai principi ed alla volontà del popolo svizzero, ma non è questo un buon motivo per turbare le relazioni con il Sud Africa. Se ci tiriamo indietro, altri Paesi prenderanno il nostro posto ». La Svizzera è terza fra le nazioni che investono in Sud Africa, cui ha finora concesso prestiti per due miliardi e 265 milioni di franchi svizzeri (approssimativamente, 770 miliardi di lire): e per di più l'ottanta per cento dell'oro sudafricano venduto sul mercato libero passa per Zurigo. In questi ultimi anni tecnici svizzeri sono affluiti in massa in Africa del Sud, in Rhodesia e in Namibia (cfr. Les nouveaux mercenaires, Ginevra, 1975) e tutte queste sono cose che aiutano a spiegare l'esistenza a Berna (Hochfeldstrasse, 3), di un «Club degli amici dei Sud Africa». E' un sodalizio mancante nella maggior parte dei Paesi, e invece in Svizzera è piuttosto attivo, e in coincidenza con la recente visita del primo ministro di Pretoria, John Vorster, ha pure organizzato un'esposizione di artisti sudafricani nella Schulwarte di Berna. Purtroppo un attentato è stato compiuto da ignoti contro la Schulwarte (senza, comunque, gravi conseguenze) e il dirigente del club, un certo Rudolf Balsiger, giustamente ha osservato che non è con sistemi del genere che si può contribuire a risolvere il problema dei rapporti fra le razze: « Se gli attentatori — ha però continuato, rivelandosi un amico deH'apartheid oltre che del Sud Africa — credono invece di ottenere proprio questo con il loro gesto, allora si mettono sullo stesso piano dei gruppi giovanili bantu che, spinti da elementi criminali, appiccano il fuoco alle loro scuole e alle loro attrezzature culturali e cercano di distruggere i mezzi di trasporto utilizzati dalla popolazione per recarsi sul posto di lavoro ». Quando le stragi di Soioeto e dintorni ottengono questa eco di commenti, non si può dire che sia stato fatto un grande sforzo per capire i motivi della protesta dei bantu contro chi li discrimina; ma d'altro canto è un fatto che tra i valori finanziari permanenti di una società progredita ed i valori primitivi rappresentati dalle popolazioni autoctone delle aree depresse, gli svizzeri non hanno esitazioni nella scelta. La multinazionale Alusuisse (bauxite e derivati di alluminio) ha ottenuto, ad esempio, dal governo di Canberra lo sfratto degli aborigeni Yirrkalas dalle loro riserve nell'Australia del Nord. Spiegò a suo tempo la Neue Zuercher Zeitung che gli Yirrkalas erano una popolazione felice e soddisfatta, che ancora più felice sarebbe diventata in grazia all'intervento degli industriali e dei banchieri svizzeri. Invece, manco a dirlo, gli Yirrkalas intentarono un processo all'Alusuisse, resistendo allo sfratto: ed ovviamente lo perdettero, avendo l'Alusuisse fatto valere il principio morale che per aver diritto a una terra non basta abitarla (sia pure da mille anni, come era il caso degli Yirrkalas), ma bisogna altresì saperla mettere in valore: ed a far questo l'Alusuisse era assai più qualificata degli inetti aborigeni. La serie degli esempi si potrebbe allungare, ma non sarebbe che una noiosa ripetizione di quelli già citati e, del resto, mi sembra più istruttivo riferire qualche modo di comportamento diretto ad ottenere una dignitosa copertura di affari simili. La Neue Zuercher Zeitung lasciò passare un anno dalla sconfitta giudiziaria degli Yirrkalas e pubblicò una grande inchiesta (su una pagina e un quarto, abbondantemente illustrata) a proposito della triste condizione degli aborigeni australiani, ridotti in miseria, sfruttati dai trusts industriali australiani e stranieri o multinazionali. Era intitolata « Die Not der schwarzen Australier » (La miseria degli australiani neri), firmata dall'eminente specialista dei problemi del Terzo Mondo Ernest Haubold, e solamente vi mancava un collegamento, sia pure minimo, sia pure di sfuggita, alle iniziative dell'Alusuisse. In questo medesimo senso la Svizzera ha partecipato nello scorso mese d'ago¬ sto a Colombo, capitale dello Sri Lanka, alla quinta conferenza degli ottantacinque Paesi non allineati. Come neutrale, la Svizzera vi figurava « invitata », al pari della Svezia, della Finlandia e dell'Austria, e un portavoce del ministero degli Esteri spiegò il motivo della decisione a intervenire: « Il nostro governo è ormai determinato a seguire in tutte le sedi internazionali lo sviluppo dei rapporti NordSud, fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Le difficoltà che la conferenza di Parigi incontra su questo terreno non devono essere il pretesto per cedere il campo ». A un giornalista che temeva la possibilità di un cedimento alle rivendicazioni dei cosiddetti non-allineati, ma di fatto antioccidentali, il portavoce garantì: « Noi rimaniamo collegati alle grandi organizzazioni dell'Occidente, ed è attorno al Consiglio d'Europa, alla Cee, all'Associazione europea di libero scambio ed all'Ocse che noi continuiamo a tessere le nostre relazioni essenziali. Ma è proprio nel tentativo di allargare il cerchio delle nostre amicizie che consolidiamo la nostra politica di neutralità ». Gli occidentalisti ad oltranza non apparivano molto persuasi, ma il portavoce si cavò dall'imbarazzo passando dalle dichiarazioni di principio forzatamente generiche a osservazioni concrete più specifiche: « In quanto invitati, non potremo naturalmente intervenire nei dibattiti, tanto meno votare, e non saremo neppure consultati in vista delle decisioni. Nulla però potrà impedire ai nostri rappresentanti di ascoltare con attenzione e di moltiplicare i contatti di corridoio ». Così appunto è avvenuto durante i giorni della conferenza di Colombo nello Sri Lanka, e al suo ritorno a Berna il capo della delegazione svizzera, ambasciatore Sigismondo Marcuard, riferì soddisfatto di aver avuto la possibilità di « sondare le principali tendenze che si delineano, sia a livello politico sia a livello economico, tra i diversi gruppi dei Paesi emergenti e degli altri Paesi non-allineati ». La politica di corridoio sembra dunque riuscita, e il fatto non stupisce, dato che essa è congeniale allo spirito svizzero di iniziativa irradiato sul mondo. Esso può suscitare — come ho detto in principio — rancore o invidia, sospetto o diffidenza, ma certo non saranno i sentimenti (e, tanto peggio, sentimenti stranieri) ad intralciare l'espansione elvetica. Vittorio Gorresio Zurigo. Un'immagine di strada, alla fermata del tram (Foto Grazia Neri)