Greenwich Village in pellegrinaggio di Massimo Mila

Greenwich Village in pellegrinaggio Greenwich Village in pellegrinaggio New York, settembre. Per chi arriva da Washington, dove le enormi zone verdi frapposte tra i blocchi d'abitazione stroncano in partenza qualsiasi velleità di deambulazione, New York fa la paradossale impressione d'essere più raccolta e, come si suol dire, a misura d'uomo. Lo sviluppo è avvenuto in altezza, e c'è da farsi venire il torcicollo se si vuol guardare, di tutti i grattacieli, quanto siano alti. Ma, almeno nell'isola di Manhattan, infilata tra due rami del fiume Hudson, lo spazio è quello che è: perciò il regolare reticolato di avenues longitudinali e di strects orizzontali invita a camminare. E poiché tutti mi dicono che devo andare a Greenwich Village, che un europeo, e soprattutto un europeo con interessi artistico-culturali, non può mancare di visitare questo santuario delle teste d'uovo americane, un giorno esco dall'albergo sotto un sole rovente e comincio a trotterellare giù per la Settima Avenue. Bisogna camminare di buon passo, qui. Guai a gironzolare col naso per aria, guardando le vetrine e i palazzi: siete subito abbordati da tipi che vi ficcano in mano un invito a votare per Carter oppure a visitare certi gardens of pleastire dove vi attendono the most beautiful girh of ali nalionalities per soddisfare — si specifica — ogni vostro desiderio. Inviti, entrambi, per me inaccettabili, a causa di ovvie e distinte ragioni anagrafiche, che la filosofia di Kant avrebbe collocato rispettivamente nelle categorie dello spazio e del tempo. Tutte le avenues, man mano che si avvicinano alla punta meridionale dell'isola, acquistano un carattere più dimesso. Anche Broadway, appena esce dal caotico orgasmo degli incroci con la Settima e la Quinta (Broadway è, fra le grandi avenues, l'unica diagonale, e perciò attraversa le altre, producendo ogni volta un finimondo), diventa anche lei una strada alla buona, senza pretese. Cosi si arriva al Greenwich Village per graduale estinzione dell'intensità metropolitana, che si arroventerà poi di nuovo, in fondo alla punta dell'isola, nella frenesia laboriosa di Wall Street. Eccolo, il Village, con le sue casette basse, le scale antincendio sui balconi, le stridette curve e sghembe, allegramente decorate di bandierine multicolori, le bottegucce d'antiquari, di fruttivendoli, di quadri e cornici; coi tipi pittoreschi d'un'attardata bohème, che portano scritto in fronte: « Io sono un artista! ». Le facce « interessanti » si sprecano, qui, e imitano l'aspetto di Hemingway, o anche di Rodolfo e Marcello. Poi magari saranno dei ciarlatani qualunque, incapaci di tracciare l'o con l'imbuto o di scrivere un periodo senza errori. Scarseggiano gli hippies, forse perché ce ne sono in città (ma non tanti come da noi), e qui la regola del luogo è di distinguersi. Quei pochi che ci sono, raccolti in un angolo della piazza, si esibiscono con poco talento a suonare un saxofono e una monotona percussione africana. La piazza, alberata, con panchine dove indugiano all'ombra pensionati e vecchie signore, è Washington Square, quella del romanzo di Henry James, con l'arco di trionfo e la statua dell'eroe della bicentennale indipendenza. La statua è opera di Alexander (Stirling) Calder, padre dell'omonimo i cui « mobiles » metallici ondeggiano capricciosi ad ogni aprir di porta nello splendido Museo d'Arte Moderna in città. Ce n'è anche un'altra, statua, al lato opposto della piazza, e da lontano mi pare un tipo familiare. Mi avvicino: ma si, è proprio lui, Garibaldi, col suo berrettino rotondo, e cava la spada dal fodero. Ai suoi piedi, una coppietta se ne sta accucciata, buona buona, sui gradini. Un'altra, sullo spiazzo, gioca al volano con un disco di plastica, le cui imprevedibili evoluzioni mettono a repentaglio l'incolumità dei passanti. Poco oltre, alcuni tipi di popolani giocano gravemente a scacchi su certi appositi tavolini di pietra con la scacchiera dipinta sopra. Qui intorno, nella ragnatela di stradette che circondano il parco, Mac Dougal, Bleecker Street (si, quella dell'opera di Menotti), vissero i più bei nomi della letteratura americana, da Henry James a Edith Wharton, da O'Neill a Dos Passos. Qui la grande attrice Edna St. Vincent Millay fondò il suo teatro, il Cherry Lane. Si ha una certa difficoltà a concepire che tanti grandi spiriti abbiano amato vivere nell'ambiente artefatto di que¬ sta Montmartre di riporto, e ciò aiuta a comprendere d.; colpo come una parte della grande letteratura americana sia una letteratura contro l'America. Gli intellettuali si trinceravano nel manierismo di Greenwich Village per difendersi contro la spietata civiltà del business, che alle loro spalle edificava la dura babele di pietra e cemento. Montmartre e l'Europa erano, per quei letterati, la vita dello spirito, i valori della cultura e dell'arte; e questa nobile professione di fede non avveniva senza un certo sospetto di spiritualistica affettazione. Chi ha costruito la vera immagine dell'America, loro o l'orgogliosa avanzata di grattacieli e metropolitane, lo sterminio totale della natura (eccettuato il polmone verde di Central Park), immolata al culto del dio danaro? Forse ne prevedevano, quegli animi gentili, sviluppi e conseguenze? Le crisi economiche ricorrenti, la crescente difficoltà di vivere, lo stress, l'estraniamento e l'alienazione, la frana delle nevrosi che minano dall'interno l'apparente sicurezza delYamerican ivay of life, i presidenti assassinati, la caccia alle streghe, il Vietnam e Watergate? E' mai sorto, sorgerà mai su questa terra uno spirito così grande che possa collocarsi al di sopra dei due poli della cultura americana e produrne la sintesi? In quale campo sorgerà? Sarà un Goethe o sarà un Mozart? Proba¬ bilmente un architetto: sarà stato Frank Lloyd Wright? Queste e altre domande pongo, mentre mi allontano dal Village, all'ombra che sempre mi accompagna durante questi trekkings per le strade di New York: Pavese, al quale mi sembra di rubare qualcosa vivendo io questa piccola esperienza dell'America, che a lui era dovuta. E che certo gli avrebbe serbato anche qualche delusione. Spesso, a quei tempi, bastavano i nomi di questa America, scoperta attraverso la celluloide e le pagine di Sinclair Lewis, a creare un mondo. M'imbatterò tra poco in piazza Wanamaker, nome che da giovani ci faceva delirare, forse per una supposta ascendenza indiana. Bene, è una piazzetta qualunque, tranquilla e silenziosa, in mezzo a normalissime case d'abitazione. Vedo sulla pianta che non lontano di qui c'è la Bowery. Non so bene che cosa sia, probabilmente una banca, ma il nome mi riporta a vecchi film degli Anni Trenta, con gli attori che più amavamo: George Raft, James Cagney, Dick Haynes e altri bulli del sottomondo protezionista. Mi ci dirigo, dopo aver fatto il pieno di « espressi » nei vari Caffè Reggio, Caffè Verdi, del Villaggio. E' un quartiere disadorno e un po' sinistro, di grandi cortili per autocarri, spedizionieri, magazzini per le merci, botti e cisterne. A un angolo del corso attira l'attenzione un edificio piccolo, basso, quasi un parallelepipedo di mattoni imbiancati, potrebbe essere un garage. Invece c'è scritto su Amato Opera. Vado a vedere da vicino, pensando che sia magari un teatrino di specialità locali. Macché: Io spettacolo « scheduled » per questa settimana è il Don Giovanni. Più avanti ci sarà La Traviata, Carmen e così via. Quasi tutte le sere cambiano gli artisti della compagnia, perché si tratta di uno showease, una specie di teatro sperimentale per le voci americane, diretto da Anthony Amato, che accompagna personalmente al pianoforte. Sulla porta è affissa la fotocopia d'un articolo del New York Times, per la « prima » americana de La battaglia di Legnano, evento memorabile che il soprano Licia Albanese (ma certo, Licia, in Italia non ci siamo dimenticati di te) aveva onorato della sua presenza. Anche questa è America, e il maestro Anthony Amato mi piace immaginarmelo come una replica di Lorenzo da Ponte nel ventesimo secolo. Massimo Mila