Il Gallo di Anagni

Il Gallo di Anagni VIAGGIANDO NEL VINO Il Gallo di Anagni Avevo ricordi meravigliosi di Anagni. C'ero stato ripetutamente, e una volta mi ero fermato più di un mese, per girare gli esterni di un film. Ecco perché, da Campobasso raggiunta Napoli a notte, e ripartito la mattina dopo per Roma, quando sul lungo ciglio dell'ultima collina della Ciociaria vidi Anagni alta nel sole di mezzogiorno, dissi a mia moglie di uscire dall'autostrada: avremmo fatto colazione lassù, in una vecchia trattoria dove tanti anni fa si beveva un vino indimenticabile: un Cesanese del Piglio: dolce, pastoso, corposo, spesso, rosso cupo quasi nero, e di un gusto che soddisfaceva completamente malgrado la sua stranezza. Ma ne avevo dimenticato il nome: Trattoria dell'Aquila? Trattoria del Falco? Ricordavo solo che era a destra, nella stretta, buia, serpeggiante via principale. Un antico palazzo, forse medievale: enormi mura, grandi sale, soffitti a cassettoni anneriti. La facciata dava sulla via; e il retro, come lo sperone tufaceo su cui era costruito, si protendeva verso mezzodì, nell'aperta vallata del Sacco. Ricordavo che dal portone massiccio dell'ingresso si vedeva, a cannocchiale, in fondo al grande buio delle successive stanze, una piccola finestra quadrata, dorata e sfavillante di sole. Ah, la gioia di arrivarci verso l'ima, di giugno, sudati, assetati, affamati, affranti dopo che dall'alba avevamo lavorato nei campi, nelle vigne, e sulle strade polverose, combattendo una vera battaglia con le macchine da presa, i cavalli, gli attori, i cadutisti, le comparse, per costruire una battaglia finta tra i soldati napoleonici del generale Hugo e le truppe di Fra Diavolo! La gioia di attraversare quel fresco e quel buio verso le tavole di salvezza che ci attendevano nella penombra dell'ultima sala splendendo col candore delle tovaglie appena sfiorate, alle cocche, dai raggi del sole ancora altissimo! Naturalmente, trovai cambiata anche Anagni. Una nuova città — i soliti condominii e le solite villette — era sorta tu «'intorno alla vecchia sui due versanti della collina, specialmente dalla p.irte di mezzogiorno. Ma, per fortuna, all'interno, lunghesso il ci glio, la vecchia Anagni sembrava intatta. Infilammo la stretta e buia via principale. Pregai mia moglie di guidare adagissimo. Spiavo sulla destra, si curo di riconoscere la straor dinaria trattoria dall'insegna o anche soltanto, se insegna e trattoria non esistevano più dall'archivolto e dagli stipiti, a grossi bugnati, del portone di ingresso. Invano. D'altra parte, i vecchi palazzi dalle mura scure e consunte erano tutti lì, stretti, addossati, ininterrotti; neanche uno era stato demolito e sostituito con un nuovo edi fido: neanche uno era stato restaurato o ridipinto. La trattoria era sparita! «Forse non ti ricordi bene », disse mia moglie. Ma se non fossi riuscito a scoprire traccia dell'antica osteria, avrei pensato, piuttosto, a un'allucinazione retrospettiva. Arrivammo sulla piazza Cavour, che si affaccia alla vallata con un ampio terrazzo. Era, adesso, un parcheggio ingombro di un centinaio di macchine: a stento troviamo spazio per la nostra. Mi avvicino a un vecchietto e comincio, esitando, a descrivergli la trattoria: mi interrompe, senza lasciarmi finire: mi ha riconosciuto, si ricorda benissimo di me: mi indica la via principale, che continua dopo la piazza, oltre il turrito, fosco palazzo del Comune: pochi passi più in là, sulla destra, troverei non l'Aquila, non il Falco, ma II Gallo\ * * Anche al Gallo, la Dio mercé, tutto è identico a una volta. E anche lì la padrona, che allora era una ragazzina e adesso è una donna, una bella bionda, mi riconosce. Sono venticinque anni che non mi vede: eppure mi accoglie come se mi stesse aspettando da un momento all'altro. La osservo, cerco di ricordarmela, sì, mi sembra e non mi sembra... ma no, evidentemente si trattava di sua madre. Ed ecco, infatti, la madre, anziana e solida, che, a se stessa di venticinque anni fa, non assomiglia quanto le assomiglia, ora, sua figlia quarantenne, alta, forte, allegra. Vedendo che continuo a scrutarla, mi dice a bruciapelo: « Lei guarda i miei capelli e si stupisce, no? Embè, me li so' fatti biondi! ». Chissà perché, forse perché non riesco proprio a ricordarmela, penso che quando aveva quindici anni fosse meno bella di adesso. Certo era meno curata, meno signorile, meno chic. E' alta, ho detto: e osservando, al di sopra della sua capigliatura bionda, il vecchio soffitto a cassettoni, mi accorgo di un altro particolare che assolutamente non ricordo: i travi sono gli stessi, massicci e anneriti, ma il fondo di ogni scomparto è celeste vivo, con decorazioni di bellissimi fiorellini multicolori. « Ma quei fiorellini una volta non c'erano! » dico alla madre. « C'erano, c'erano: solo che erano sporchi e nun se vedevano: li abbiamo fatti ritoccare ». Mi guardo intorno e capisco che dappertutto si è proceduto alla stessa operazione giudiziosa, un modello che l'intera Italia dovrebbe imitare: non solo conservare il conservabile ritoccandolo con estrema cautela, ma migliorarlo in modo così scrupoloso che le innovazioni si accordino sempre all'antico. E così è, al Gallo di Anagni. anche per il vino e per il cibo. II Cesanese del Piglio? C'è sempre, naturalmente: ma, quello dolce, lo servono alla fine, come va, per il dessert; durante il pasto, assaggiamo un Cesanese del Piglio ben secco, con un fondo amarognolo, e servito, come va, fresco di cantina. E assaggiammo, prima e in maggior copia, un Bianco di Anagni che allora, almeno qui al Gallo, non davano, e che è semplicemente perfetto: leggero, in equilibrio tra l'asciutto e l'abboccato: gradazione alcoolica 12. Vitigni: Trebbiano e Malvasia di Candia, come quasi tutti i bianchi del Lazio: più qualche percentuale di Agostinella, Romanesco, Bello Velletrano. ★ * Quanto al pasto, mi annoto il principio e la fine. Il delizioso ganascione, una focaccia calda e croccante, insaporita di aglio, ripiena di prosciutto e provolone. E una ricotta fresca, appena dolce e, nel contempo, appena salata. Non acquosa. Non troppo soda. Se pensiamo che oggi la ricotta quasi non esiste più! Si presenta frattanto al nostro tavolo un giovane del luogo, il professor Alberto Vari. Ci parla di Anagni. Esalta lo straordinario progresso di Anagni in questi ultimi anni. Ci conferma una realtà che già avevamo intuito: costruita tutta in cresta, la città vecchia non ha potuto essere guastata. Inoltre, nella pianura immediatamente sottostante, fioriscono moltissime industrie: perché qui siamo a Sud e cioè dentro gli stabiliti confini che permettono nuovi impianti coi capitali della Cassa del Mezzogiorno, ma siamo ancora vicinissimi al Nord. « Lo sa che, come numero di automobili in rapporto al numero degli abitanti, Anagni è addirittura la prima città d'Italia? La seconda è Torino ». Non gli dico niente, ma penso che vorrei controllare. Intanto la colazione è finita, forse bisogna decidersi e andare a Roma: un ritorno che, ogni volta, mi inquieta. Scartabello istintivamente il mio taccuino e trovo un appunto di Gino Veronelli. Nel Lazio, mi consiglia di assaggiare i vini di tre produttori eccezionali: il principe Alberico Ludovisi Boncompagni a Fiorano; il principe Antonello Ruffo a Paliano; e il maestro Luigi Colacicchi ad Anagni, in via Vittorio Emanuele 241... Ma è qui a due passi! Via Vittorio Emanuele si chiama appunto la via principale! Verso il principio degli Anni Trenta Colacicchi e io amavamo tutti e due Mozart di un amore sviscerato: proprio in quell'epoca ci accadde di lavorare allo stesso film: diventammo amici. Ignoravo che si fosse messo a fare il vino. Musicista finissimo, i suoi vini non possono essere che di grande classe. « Andiamo da Colacicchi », dico a mia moglie, « e fermiamoci qui stanotte. Perché no? Ci sarà bene un albergo. In caso dormiremo a Fiuggi, sono venti chilcnetri ». Era, in fondo, un ultimo pretesto per ritardare ancora. Senonché, il giovane Vari mi dà la triste notizia che Colacicchi da tempo si trova in clinica a Roma. « C'è però qui suo nipote, Bruno Colacicchi. Dirige un collegio alla periferia di Anagni. E manda avanti l'azienda vinicola in assenza dello zio ». Il collegio è una grossa villa del principio del secolo in mezzo agli spelacchiati resti di una pineta. Bruno Colacicchi, cordiale e gentile, ci accoglie e ci illustra i vini che lo zio produce: nelle vigne di Torre Ercolana, un Rosso tipo Piglio, un Cabernet, e un Petit Sirah; nelle vigne di Romagnano, il Romagnano bianco, che è un Sauvignon. Come vorrei assaggiarli! In calce al suo appunto, Veronelli ha scritto: «I vini di Colacicchi: eccezionali, fra i migliori di tutta Italia ». E adesso i nomi, soprattutto Petit Sirah e Sauvignon, mi accendono la fantasia. Ma vorrei assaggiarli avendo vicino il mio vecchio amico, parlare intanto del vaudeville del Ratto del Serraglio: qual è il segreto di quella sublime melodia? Perché non possiamo ascoltarla senza lacrime? Il pensiero che Colacicchi non sta bene e l'atmosfera tetra del collegio mi deprimono al punto che, dopo essermi brevemente consultato con mia moglie, decido di andare subito a Roma. Bruno Colacicchi mi dà il numero dello zio in clinica. Lo chiamerò: se può ricevere visite, andrò a trovarlo. E tornerò ad Anagni quando ci sarà tornato anche lui, guarito... L'indomani ho telefonato. Aveva la voce molto stanca, non sapeva quando avrebbe potuto lasciare la clinica. Sono rimasto a Roma un solo giorno, e l'ho dedicato ai vini di un altro vecchio amico: Renato Castellani, che vive in una casa costruita da lui in mezzo ai vigneti, sulle pendici dei Colli Albani, a Grottaferrata. Mario Soldati