Manicomio: i malati parlano, denunciano

Manicomio: i malati parlano, denunciano Per la prima volta si sono riuniti in assemblea in un ospedale di Roma Manicomio: i malati parlano, denunciano La nostra collaboratrice Adele Cambria ci ha inviato queste sue considerazioni su un'assemblea che si è svolta all'interno di un manicomio romano. Roma, 18 settembre. Per la prima volta i malati di mente dell'ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà si sono riuniti in assemblea: con loro, tra loro, i medici — i due direttori dell'istituto Pariante Jaria, c soltanto tre dei sedici primari — gli infermieri, i portantini (assenti le suore, pure preposte alla direzione e alla cura dei servizi essenziali): e poi i parenti dei malati, ed altri medici, e psicologi, sociologi, che propongono terapie alternative — cui l'istituzione non dà ancora pieno riconoscimento — e, soprattutto, (itti gruppi di persone, quasi tutte giovani e giovanissime, in particolare le ragazze, studentesse di medicina e non, che del manicomio si occupano per scelta politica: con il pei, il pr, la dp, o anche senza una militanza precisa, nell'ambito della sinistra: la loro è comunque scelta politica, per il convincimento che il diritto alla salute — in questo caso alla salute mentale — è un diritto politico collettivo: nel senso che non è legittimo separare i componenti di uno stesso aggregato sociale distinguendoli in « malati » e « sani ». All'assemblea di Santa Maria della Pietà erano state invitate anche le scuole di quei quartieri — Trionfale, Monte Mario — nel cui territorio il manicomio è si¬ tualo; c'erano le femministe, c'erano gli operatori, medici e psicologi, dei Cini, i centri di igiene mentale che a Roma sono cinque e dovrebbero, per legge, essere ventuno: c'era il nuovo assessore provinciale alla Sanità, il comunista Agostinelli, con altri membri della giunta. Insomma forze politiche e sociali organizzate, tecnici, gruppi di spontanei e, semplicemente, persone comuni per la prima volta ammesse ad una realtà lino ad oggi drasticamente rifiutata ai « non addetti ai lavori ». Democratizzazione dell'ospedale psichiatrico o abolizione di esso? Questo il nodo del problema, e su questo punto sia tecnici che politici sono divisi (il Cairn, per esempio, espressione dei radicali, si batte per l'abolizione, intanto, di tutti i regolamenti manicomiali). Ma la domanda che si pone nell'immediato, nel non più rinviabile, è quella che attiene, quasi, alla pura sopravvivenza dei 1600 ricoverali di Santa Maria della Pietà (per i quali la finanza pubblica spende ben 30 miliardi l'anno): che fare perché siano restituiti ad una condizione umana decente? « So' quarantadue anni che so' qua dentro a sto' ospedale, e i miei parenti se telefono mi arrispondono: " E' inutile che telefoni, tanto noi non ti possiamo prendere perché non ci abbiamo posto, non ci abbiamo sordi, eccetera eccetera ". Qua all'ospedale è una vita che fa schifo, tutto pieno de monnezza, e possibile che io devo da sta' sempre qua dentro? A me me basterebbe una cameretta, una cameretta e un po' di comprensione... ». E' la prima persona malata di mente che ha il coraggio di prendere il microfono c parlare: è una donna, chiusa qui da quando aveva diciotto anni. « Quanno sono entrata — continua, ed è straziante — armeno la villa era piena de fiori, ora pure il giardino è n'immonnezzaio, i giardinieri chi li vede mai, oppure passeggiano, anche i portantini passeggiano, se vogliamo pulito dobbiamo pulire noi. i ricoverati... ». Intorno a queste prime dichiarazioni esitanti si coagula, quasi esplodendo, il consenso degli altri ricoverati: vicina a me, una donna con i capelli tutti bianchi (ma perché sta qui, con questo viso sereno, da classica nonna?). Agita il bastone e grida: « La tortura non se fa solo ar Cile! ». Le case-famiglia, cioè appartamenti per quattro o sei malati, che possano restituire loro un'illusione di « privacy », finiscono con l'essere dunque un miraggio, una terra promessa, per chi vive, magari da trenta o quarant'anni, nelle camerate di un manicomio come questo: e tuttavia la letteratura medica più aggiornata, sulla terapia dei malati di mente, ha da tempo posto in discussione proprio la nozione di « famiglia »: spesso infatti l'individuo si ammala a causa (se non per colpa) della famiglia: quindi in Inghilterra, tanto per fare un esempio, Io psichiatra Mortoti Schatzman (autore del libro « La famiglia che uccide »), già da anni cura i suoi malati traverso nuclei abitativi che funzionano come « comuni »: miste di individui cosiddetti « normali » e di altri, in numero inferiore, ammalati di niente: anche il medico, eventualmente con moglie e bambini, abita insieme ai pazienti, e Schatzman assicura che, pur in presenza di gravi casi di psicosi, in queste « comuni » non è stato mai necessario ricorrere neppure agli psicofarmaci. In Italia invece, o meglio a Roma, a « Santa Maria della Pietà », i parenti — quelli perlomeno che non abbandonano il ricoverato — sono, da una parte, tenuti all'oscuro di tutto (terapia, condizioni di salute del maialo ecc.); dall'altra, si ingegnano a sostituirsi, gratuitamente, al personale di servizio (pur sovrabbondante, secondo Agostinelli), facendo mangiare la vecchia madre, di cui nessuno, in corsia, si cura, cambiandola se la trovano bagnata, e via dicendo. « Sono la madre di un ricoveralo di vent'anni. Dieci anni di andare e venire da " Santa Maria della Pietà ", ventuno ricoveri in manicomio. 1 carcerati si possono difendere, questi sono indifesi da tutti: familiari (tanti hanno paura, tanti sono ignoranti, come pure io sono ignorante, nessuno mi ha mai insegnato cos'è psicologia), e poi i medici, gli infermieri, ignoranti spesso più di me, senza sapere che cosa è psichiatria, che cosa è psicologia. Vivono questi figli qua dentro, senza un libro, senza un giornale, senza un disco, senza potersi levare il gusto neanche di prendersi un calle al bar, perché il bar non c'è... Dicono che sono sempre io a gridare, ma io vorrei che fossero cinquanta, cento madri come me, perché la madre ha la ferita aperta, del figlio pazzo. Con ventuno ricoveri potete immaginare che cosa è la vita di mio figlio. Ogni volta portarlo al manicomio è una cosa che non si può descrivere. Il primo giorno non lo potrò mai dimenticare. Il mondo si divide in quelli che hanno paura della malattia mentale e in quelli che non hanno paura e la sfruttano. Ho visto mio figlio legato: il medico immaginario e il malato per forza. Perché la prima volta non era pazzo. L'ultima volta che è fuggito da qui, non si è più trovato per cinque giorni. Me lo sono visto arrivare a casa sporco, ridotto un Cristo, io sono stata felice, e per cinque mesi non ho dormito una notte, per tenerlo d'occhio che non scappasse ancora e me lo riportassero qua dentro. Ma è scappato ed è finito quella notte che io mi ero addormentata, alle 3, al "San Giovanni ". Me l'hanno restituito gonfio di botte. Io so chi è stato... ». Le denunce sono innumerevoli. Ma intanto all'ospedale psichiatrico di Roma, che pure sopravvive nelle anacronistiche condizioni fin qui descritte, da qualche tempo gruppi di volontari e medici ed operatori dell'istituto riescono a praticare alcune forme di terapia alternativa, interessando, questi trattamenti "diversi " della malattia mentale, circa la metà dei padiglioni. Adele Cambria

Persone citate: Adele Cambria, Agostinelli, Cini

Luoghi citati: Cile, Inghilterra, Italia, Roma