Divisi per Gabriele

Divisi per Gabriele I "TACCUINI,, DANNUNZIANI Divisi per Gabriele D'Annunzio mette ancora in scacco i suoi lettori. Viene allestita una mostra iconografica a Gardone; Enrica Bianchetti dà alle stampe alcuni quaderni di inediti (Altri taccuini, Mondadori editole): detrattori ed estimatori si accapigliano, quasi ''Immaginifico tosse vivo, senza il segno di una ruga, fra noi. La vitalità di D'Annunzio si rinfresca col tempo. Quel che sorprende è la foga delle accuse e dei rifiuti fuori dei denti, tale che si pensa a rimossi e inconfessabili sfrenati amori. Non si odia con tanto furore uno scrittore se non per contrastare la grande tentazione che egli esercita su noi. Nel mese di agosto, le pagine culturali de « la Repubblica » hanno dato spettacolo di questo, e chissà se la questione è chiusa. Date fatidiche: 21 agosto, 2(i agosto, 28 agosto; protagonisti: Beniamino Placido da un lato, col supporto di Alfredo Giuliani, dall'altro Aldo Rossi. Placido insultava, Rossi difendeva. Placido rispolvera un detto di Elsa Morante, per cui D'Annunzio sarebbe « un imbecille », Rossi risponde che D'Annunzio non era un cretino, e che « non ha colpa se i suoi posteri sono cosi privi di idee da non produrre e sostenere qualcosa di alternativo, ma siano sempre lì ad arrabattarsi in rivalutazioni, ridimensionamenti, riproposte e ripulse, quasi fosse il solo ad incarnare il mito del Grande Scrittore ». ★ * Ahimè! Aldo Rossi ha ragione; ma aggiungo che il torto di Beniamino Placido è quello di perdersi talvolta dietro l'invenzione giornalistica di una battuta, umiliando il talento di lettore che pure ha. Nella risposta a Rossi scrive che D'Annunzio « non sarà più una fabbrica di emozioni grossolane, ma è pur sempre una Premiata Distilleria, fornitrice della Real Casa. Sotto le candide bende, sono sicuro che il Vate ci vedeva benissimo. Anzi, con un occhio osservava le parole uscire dalla penna con l'altro ne controllava l'effetto presso chi di dovere ». L'affermazione è di quelle che dovrebbero abbattere sequoie secolari: gratta gratta, però, è ispirata a un moralismo così usurato da risultare disdicevole in un elegante dissipatore di immagini quale Placido si compiace di essere. Imbecille, D'Annunzio. Certo si è reso colpevole di tutti i peccati possibili e immaginabili. C'era in lui, indubbiamente, una sorta eli maledetta nefandezza che lo portava a farsi disponibile per le più turpi avventure. Il cerimoniale fascista, il rituale di massa (quello intorno al quale George L. Mosse ha scritto capitoli per ora non sostituiti), lo ha inventato lui. Per quel genere di invenzioni non si può oggi provare simpatia, ed è difficile mantenersi davanti ad esse sul piede di un lucido distacco (bisogna possedere, appunto, l'ottica da storico e scienziato di George L. Mosse). Dunque, D'Annunzio avrebbe distillato le sue parole per « chi di dovere ». Egli sarebbe stato servo e mercenario. Anche su questa questione sono state scritte cose che non varrebbe la pena dimenticare. Ezio Raimondi ha ricostruito con sottile efficacia quanto D'Annunzio sapesse farsi propagandista di se stesso, avendo intuito la straordinaria forza, la perentoria violenza con cui ad esempio un giornale impone ai lettori le proprie firme... Erano tempi in cui la dottrina delle comunicazioni di massa era di là da venire. D'Annunzio dosava le proprie apparizioni, sfumava e accentuava la propria presenza in pubblico. Gramsci ha detto benissimo che egli incarnò, specialmente dopo Fiume, presso l'immaginazione degli italiani, il senso stesso dell'intelligenza (« ...l'ammirazione ingenua e fanatica per l'intelligenza come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia », scrive Gramsci). ★ ★ Tutto questo, materia non scarsa di accertamento e dibattito, occupandoci di D'Annunzio non va dimenticato: con l'istinto mondano e sociale che lo segnava, egli ha messo a nudo tale congerie di contraddizioni storiche e politiche da proporsi come un momento obbligato dell'Italia fra i due secoli. Tanto basta a scorporarlo da qualunque provincialismo, poiché la provinciale Italia di quegli anni covava sciaguratamente un virus che si diffuse per l'Europa e che, messo in cultura, nonostante due guerre, sembra disposto a non cedere ancora... Una prima conclusione, insomma, non può fare a meno di considerare le finalità piccolo-borghesi del dannunzianesimo: in quello consistette la sua immediata capacità di attrazione e diffusione. 11 momento di cui D'Annunzio è protagonista vede la coscienza europea imboccare la via verso la terra dei valori e delle idealità piccoloborghesi e a questo scopo inventarsi un'epica dai complessi connotati (cascami di romanticismo, sensualismo, simbolismo, un rinverdito nazionalismo esasperato e obliquo). D'Annunzio, certamente quindi, più per istinto che per stregonesco disegno, ha in mente un pubblico, o, meglio, ha in mente un messaggio da indirizzare al proprio pubblico. E scrive. Ma la questione è appunto questa: D'Annunzio scrive, e l'idea che si trova ad avere dello scrivere sopravanza ogni altro calcolo. Nonostante tutto, nonostante i gesti fatali, passare da destra a sinistra in parlamento, i discorsi del maggio 1915, alala e Fiume, tutta la realtà, per lui, andava a ridursi in scrittura, si cacciava nel budello dove ogni profilo si perde e non restano che labili segni di fumo. La verbalizzazione dannunziana non si ferma però a registrare una simile bancarotta: chiama invece a raccolta un'intera tradizione letteraria. Ha l'ambizione di proporsi come l'erede unica di quanto di più alto la poesia e la prosa italiane hanno prodotto, lo umanesimo, il rinascimento. Il suo torto, ma anche la sua freschezza, fu di non accorgersi che, nel ritenersi erede di una tale tradizione, ne esasperava i tratti apparenti. In questo processo d'esasperazione, per strano che sembri, D'Annunzio è poeta: riesce cioè a rappresentare plasticamente, con uno stile quanto mai personale, la decrepitezza, l'inutilizzabilità di un dizionario di metafore e di un lessico i cui punti di forza parevano annidati nella supposta eterna gioventù del classicismo. D'Annunzio, con un'abilità senza pari, e col candore incosciente dei poeti, mostra che tutto ciò è moribondo se non addirittura morto. Ma la poesia gli fa sgambetto, e lo costringe a esprimere, quando la vitalità vorrebbe di più trionfare, un immedicabile sentimento agonico. L'agonia dello scrivere, l'agonia della letteratura che intride di sé anche l'annotare veloce un indirizzo o la supplica d'un postulante. In questi Altri taccuini l'appunto per un discorso da pronunciare, in Abruzzo o davanti ai militi fiumani, insegue quello che non vuol perdere l'immagine d'un quadro, di un'alba o di un cadere d'ombre. Sempre, qualsiasi cosa sia scritta, ci si accorge che l'esistenza della medesima, nella mente dello scrittore, è soltanto funzionale alla sua penna, alla sua possibilità e capacità affabulatrice. Accade, cioè, che D'Annunzio medesimo, nell'attimo in cui strappa al mondo qualche frase (e la Bianchetti in nota ci mostra come quelle righe diventeranno pagine nelle diverse opera majora), tramuti se stesso in oggetto, e parli di sé sfumandosi in una ipotetica terza persona. Non solo: vi sono le gare che egli intraprende con la fisiologia, con quel gusto da animalista per cui il suo stile si profuma degli aromi più snervanti del simbolismo. V'è un fascio di capoversi del 1914, sul parto d'una cagna, da leggersi col fiato sospeso, e dove nessuna Premiata Distilleria della Real Casa vi avrebbe a che spartire. Oppure un volo in aereo sul basso Friuli, 1915: « Passa un treno di soldati. Giornata troppo chiara. Lucida malinconia... ». In quello stile nominale a respiro corto qualcuno, per faciloneria, potrebbe richiamare la Allegria ungarettiana. Siamo all'opposto: siamo cioè in pieno naufragio della parola poetica, non al dopo-naufragio. ★ * Nello sforzo di stipare tutto con sintassi e lemmi, D'Annunzio sembra coatto: non riesce a scampare al crudele destino che gli è assegnato, rendere alla carta ogni cosa che vede. Il desiderio di meditare rimane tale; ma l'accensione impressionistica sfiora l'astenia esistenziale delle nourritures gidiane. Ecco la bozza de La pioggia nel pineIo: « Riodo il rumore del mare. I piedi si bagnano nella macchia pregna di pioggia. Tra gli aghi dei pini nereggiano le pine solide. Le cicale, che cantavano ancora sotto il cielo cinerino, a poco a poco ammutoliscono. Il loro canto si fa sordo, sotto la pioggia; poi si rallenta; poi si spegne. Di tratto in tratto una nota roca e fioca risorge, spira. E su tutta la foresta si spande il suono della pioggia tiepida...». A quale conclusione ultima voglio arrivare? D'Annunzio non è da rileggere o da rivalutare: va anzitutto letto, e non per far piacere ai « professori » come ritiene Placido; piut tosto cerche, pur murato den-tro la letteratura, finisce col rimandarci alla società italiana, alla sorte della sua cultura, ci accompagna dentro un inferno nel quale ancora, forse, ci troviamo. Enzo Siciliano

Luoghi citati: Abruzzo, Europa, Fiume, Friuli, Gardone, Italia