In margine al «caso Lefebvre» di Massimo Mila

In margine al «caso Lefebvre» Conversando con Massimo Mila In margine al «caso Lefebvre» Del card. Michele Pellegrino Sarei grato a chi ha l'incarico di curare il titolo degli articoli se volesse conservare tale e quale quello che ho messo in testa a queste mie considerazioni. Dopo quanto si è scritto, in Italia e fuori, da parte cattolica e da parte laica, sul «caso Lefebvre», non vedo che cosa potrei dire di nuovo. Quando ho letto su queste colonne le amabili espressioni con cui l'amico e collega (se si consente di esprimersi così a un «professore onorario» dell'Università di Torino) Massimo Mila ha voluto riferirsi a me in un suo brillante e vivace articolo su «Lefebvre e il latino», mi sono domandato se non dovevo intenderle come un invito, a cui sarebbe stata scortesia non rispondere, a intervenire nella questione. L'invito veniva, del resto, da alcuni temi che, suggeriti dall'episodio ma andando oltre la portata del medesimo, sono toccati nell'articolo. Mila fa una costatazione che, in bocca a uno che si professa ateo, non può non interessare l'uomo di chiesa, quando parla deIl'«impressionante rilancio della Chiesa cattolica, che già ridotta al lumicino sul piano dei valori culturali e sociali, con le funzioni quasi deserte, praticamente esclusa dalle ragioni della civiltà e del progresso, è ridiventata un fatto positivo col quale bisogna fare i conti, perché si è reinserita a gonfie vele nella vita moderna». Costatazione che varrebbe la pena di analizzare per verificarne il significato preciso, ricercarne le cause e trarne eventuali pronostici. Qui mi limiterò a esaminare la spiegazione che propone Mila quando in questo «rilancio della Chiesa cattolica», in questa «trasformazione», vede una «operazione di riconquista delle masse», per la quale ci si sarebbe serviti, come d'«uno strumento», del «sacrificio del latino e del gregoriano». Egli scorge l'artefice di tale trasformazione in Papa Giovanni e in «quanti ne seguono l'indica- zione». tra i quali annovera lo scrivente. (E gliene sono grato, poiché considero un dovere, che adempio come posso, seguire le indicazioni di Papa Giovanni, al pari di quelle di Paolo VI che ne continua la missione e l'opera). Ora mi sembra importante, per comprendere l'impegno della Chiesa a partire da Giovanni XXI11 (tenendo presente, evidentemente, gli uomini e gli eventi che prepararono il suo pontificato), interrogarsi sui motivi che lo ispirarono. Vorrei intendere in senso accettabile l'espressione «riconquista delle masse», che può avere un senso demagogico: la Chiesa, consapevole d'una missione affidatale da Cristo per il bene di tutta l'umanità, in primo luogo degli umili («evangelizzare i poveri»), non potrà mai desistere dallo sforzo di portare il suo messaggio al popolo e a tutti i popoli, non potrà mai rassegnarsi a uno più o meno splendido isolamento. Per riferirmi solo al campo della liturgia (nel quale entrano il latino e il gregoriano), la Chiesa dei nostri tempi, da parecchi decenni almeno, sente più vivo il bisogno e il dovere di facilitare al popolo la partecipazione al rito, a quel complesso di parole e di gesti, in cui la comunità professa la sua fede, ascolta la parola di Dio, si rivolge a Lui nella preghiera di lode, di ringraziamento, di umile e fidente implorazione e, al centro di tutta l'azione liturgica, adempie il comando del Maestro: «Fate questo in memoria di me», nella celebrazione dell'Eucaristia. La «comunità» dico: non il singolo credente isolato dagli altri, e nemmeno il sacerdote solo, ma tutta l'assemblea dei credenti, che il sacerdote presiede a nome di Cristo. Questa è la concezione e la prassi veramente «tradizionale» della liturgia. Parole e gesti, lingua e canto e strumenti musicali, incenso e candele, paramenti e fiori, la stessa architettura dell'edificio sacro e le opere d'arte, se ci sono, hanno lo scopo di esprimere, con tutti i limiti ine| renti all'espressione del «mistero», una realtà e una vita di fede che anima la coscienza del credente e della comunità in cui egli è inserito come membro corresponsabile e attivo. Egli non è nell'azione cultuale (come del resto in tutta la vita della Chiesa) semplice spettatore, ma attore, chiamato a entrare nella celebrazione con l'intelligenza, il cuore, la parola, il gesto (tenendo conto, evidentemente, delle possibilità offerte dal soggetto e dall'ambiente). La partecipazione, secondo le indicazioni date dal documento conciliare sulla liturgia, deve tendere a diventare «piena, consapevole e attiva». Le disposizioni relative alla lingua da usarsi nella liturgia si deducono logicamente da questo principio. Principio veramente «tradizionale» che ha guidato, non senza difficoltà e contrasti, lo sviluppo della liturgia attraverso i secoli. La lingua greca, largamente predominante nei primi secoli, fu la prima usata nella liturgia anche a Roma, per essere poi soppiantata verso la metà del quarto dal latino, adottato anche nelle chiese d'Africa; nelle regioni d'Oriente non tardarono a introdursi anche nella liturgia le lingue proprie dei vari paesi. Quando, nel secolo IX, Cirillo e Metodio portarono il Vangelo nei paesi slavi, la Santa Sede approvò la traduzione della liturgia nella lingua paleoslava. Se il latino rimase la lingua liturgica dell'Occidente fino ai nostri tempi, anche quando era quasi scomparsa dall'uso comune, ciò è dovuto, oltre che alla naturale tendenza conservatrice dell'istituzione, a ragioni che, per quanto apprezzabili, come quella di esprimere meglio l'unità fra i vari popoli dell'Occidente e di quelli che dall'Occidente avevano ricevuto il Vangelo (poiché altro fu sempre l'uso nelle Chiese dell'Oriente), dovevano cedere un giorno di fronte a quell'esigenza di partecipazione che è fondamentale nell'azione cultuale. Questa esigenza, sempre presente in una pratica religiosa che sia espressione di fede e non puro formalismo, è particolarmente sentita nel nostro tempo, anche in forza di quel senso democratico rettamente inteso per cui la persona ha coscienza della sua responsabilità attiva nel corpo sociale. Né possiamo dimenticare una realtà di cui non saranno certo gli studiosi di greco e di latino a rallegrarsi, ma con la quale è necessario fare i conti per orientare la nostra azione anche nel campo della liturgia. Mi riferisco al decadimento dell'interesse e dello studio della cultura classica e dei * Michele Pellegrino Arcivescovo (Continua a pagina 2 in sesta colonna)

Persone citate: Giovanni Xxi11, Lefebvre, Massimo Mila, Michele Pellegrino, Paolo Vi, Papa Giovanni

Luoghi citati: Africa, Italia, Roma