Ancora elusi i problemi degli atenei di Benedetto Marzullo

Ancora elusi i problemi degli atenei Le norme approvate Ancora elusi i problemi degli atenei Il Consiglio dei ministri, martedì scorso, si è occupato della scuola: senza preavviso, per l'opinione pubblica. Martedì 14 si occuperà dei «precari» nell'Università, il 21 degli esami di riparazione: di questo calendario siamo tempestivamente, e opportunamente, avvertiti. Fra i provvedimenti approvati all'improvviso (non tutti i giornali ne hanno dato notizia), c'è un acconto, sembrerebbe alla Università di Roma, di 4 miliardi. Gliene occorrono almeno 70, per ristrutturarsi, sottrarsi all'allucinante elefantiasi dei suoi 160 mila studenti. Presidi, direttori, docenti delle secondarie ed elementari ricevono attualmente otto premi (in tutto!) per «i migliori lavori su detcrminate materie»: con la debita sollecitudine il governo si È affrettato ad aggiornarne l'importo. Ha provveduto altresì alla «nuova ripartizione dei posti di assistente ordinario e della (sic) assegnazione di assistenti in soprannumero tra gli insegnamenti di diverse facoltà e università in relazione delle (sic) esigenze didattiche e scientifiche». Giusto criterio: si ha tuttavia la sensazione che il Consiglio questa volta abbia ecceduto. Non è suo compito assegnare assistenti. Né lo potrebbe: le «misure urgenti» per l'Università hanno polemicamente soppresso questo ruolo, dal 1973. Gli assistenti in soprannumero sono quegli idonei nei rispettivi concorsi, che la medesima legge attribuiva alle Facoltà, purché d'accordo con gl'interessati. Posti dunque personalizzati, che il Ministero, ignoriamo con quanta legittimità, va riassorbendo nel ruolo, a mano a mano che i titolari o abbandonano, o vincono se ci riescono concorsi a cattedra. Cosa intendesse dunque il provvidenziale intervento è oscuro: siamo certi che se non l'Ufficio stampa della Pubblica Istruzione (in altri e ambiziosi compiti affacendato), quello della presidenza del Consiglio vorrà illuminare gli smarriti sudditi. Per martedì prossimo il programma è più chiaro: «Adeguamento del trattamento economico dei contrattisti e borsisti universitari». Non sappiamo più di tanto: al posto di «borsisti», ormai perenti, si dovrà leggere «assegnisti». E' tuttavia verosimile congetturare, rassegnatamente, che si faccia onore all'accordo raggiunto il 20 maggio scorso tra i confederali e il ministro della Pubblica Istruzione. Esso prevedeva, con decorrenza dal 1° luglio '76, che la retribuzione dei primi passasse dagli attuali 2.500.000 lordi (in 13 mensilità) al favoloso importo, sempre lordo, di 3.400.000. Gli assegnisti, in proporzione, vengono maggiormente privilegiati: invece di 1.800.000 (in 12 mensilità!) , riceveranno 2.700.000, lorde naturalmente. Un bracciante agricolo, secondo il recentissimo contratto, intasca un minimo di 192.920 lire, per 14 mensilità. Agricoltura e istruzione, in Italia, non procedono evidentemente di pari passo. Ma anche se le cifre fossero meno irridenti, è il problema di fondo che viene eluso. La pressione sindacale, ancora una volta, si esaurisce sul terreno retributivo, si smarrisce in quello istituzionale. Veleggia infatti nell'utopia. Contrattisti e assegnisti sono infatti quei docenti «precari», che le «misure urgenti» del 1973 hanno inventato e assieme istituzionalizzato. Ambigue figure, cui la legge formalmente nega la stessa qualifica e mansione di docente, pur attribuendogliela con surrettizi espedienti. Ancora più grave è che gli stessi hanno un contratto a termine: nel caso migliore per un quadriennio. La scuola secondaria, pubblici uffici, secondo approssimative affinità, eventualmente accoglieranno alla fine del mandato i soli contrattisti: purché le Facoltà gli rilascino il benservito. Gli assegnisti si arrangino. Nel 1966 venne abolito l'assistentato volontario, giudicato infamante. Vennero creati i borsisti. Nel 1973 si abolirono non soltanto i borsisti (ritenendoli, senza prova, borsofori), ma perfino gli assistenti: nessuna Università del mondo si era spinta così avanti, sulla via della «democratizzazione». In attesa della loro estinzione, si inventarono non precarie, ma fantasiose razze di apprendisti, senza provvedere al loro sbocco naturale, senza una programmata carriera. In realtà si prefigurava il «docente unico», l'abolizione della titolarità di ciascuna cattedra, la gestione dipartimentale. Oggi abbiamo oltre 15 mila tra contrattisti e assegnisti, il 35 per cento a quel che sembra del corpo docente. Non hanno presente né futuro, sono disorientati, disamorati. Fra un anno cominceranno a scadérne i contratti: sarebbe un inganno confermarglieli. Un sopruso inventare un qualche ruolo che «ope legis» li stabilizzi, ingorghi definitivamente le Università: la figura del «docente-ricercatore», quale demagogicamente vagheggiata, è quanto meno tautologica. All'Università, un docente incapace di identificarsi con la ricerca, un semplice rimasticatore o pregustatore di scienza, dovrebbe essere estraneo. Che fare? Una pragmatica, anche se rozza ipotesi, potrebbe es; sere questa: trasferire gli attuali precari (sono ancora da distribuire gli ultimi tremila assegni!) nel vituperato ruolo assistenti. Non si tratta di ibernarli. Appare infatti indispensabile istituire l'abilitazione all'insegnamento universitario: solo i maestri elementari, oltre che la maggior parte dei docenti «superiori», nel nostro Paese esercitano senza essere abilitati. Con un esame di Stato, intendiamo: centralizzato. Il dottorato di ricerca, affidato alle singole Facoltà, non offre alcuna garanzia, ha finalità sostanzialmente diverse. L'abilitazione, da conseguire poniamo in tre anni, dà diritto al titolo di professore: ad essere chiamato da qualsiasi Facoltà, in un ruolo intermedio, che in ogni altra e collaudata Università corrisponde all'«associato». Sicurezza di carriera verrebbe assicurata a chi l'ha confusamente iniziata, a quanti restano esclusi, e sono tutti giovanissimi laureati, da questa mistificante «impasse». Benedetto Marzullo izcmavlprc

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