I "cuori,, di Houston

I "cuori,, di Houston 7OOO km di tre cronisti in America I "cuori,, di Houston Una clinica come santuario della speranza - E poi, il West, vero e artificiale La carovana non esiste più, si procede a gruppetti, due 0 tre roulottes per volta. Non è stata una decisione degli organizzatori americani, piuttosto una libera scelta. Una selezione dettata da tante cose, innanzi tutto l'ora della sveglia. Noi tre siamo gli ultimi. Quasi ogni giorno partiamo verso le otto, quando i più coraggiosi sono decine di miglia avanti. « Ci sono i letti da fare, 1 piatti sporchi, agganciare l'auto. Siamo stanchi », tentiamo di spiegare ai leaders che martellano di pugni la porta. Il risultato: raffiche di rimbrotti e altri punti in meno sul « libro nero ». Le duecentocinquanta miglia che dobbiamo percorrere in media ad ogni trasferimento diventano sempre più pesanti. I silenzi sull'auto si infittiscono, le pause si allungano di ore. C'è noia e sonno. Anche gii argomenti sono finiti da tempo. Sinora è andato tutto bene. Non così è stato per Marc, inviato del Meridional di Marsiglia: un attimo di disattenzione e la roulotte ha « sfiorato » un paracarro. Ora si trascina per le strade degli States con uno squarcio nella fiancata, la batteria tenuta su con la corda, l'isolante che esce dal buco. Incidente analogo è accaduto a Renée Sallas, dell'argentino Gente. Per lei il tradimento è venuto dalla tettoia di una stazione di rifornimento. « Credevo di poter passare — aveva raccontato — invece mi ha portato via il condizionatore sopra il trailer ». Ed è rimasta senza aria fresca nel deserto. Alzabandiera Anche nei colleghi della « Caravan America » c'è stanchezza. Non si rispettano più come i primi giorni gli «ordini ». Abbiamo imparato che l'alzabandiera non è poi una cerimonia indispensabile. Avremmo dovuto ripeterla ad ogni arrivo e partenza. La nostra bandiera doveva sventolare accanto alla « stars and stripes », da buoni alleati. I « meetings », le riunioni all'alba durante le quali i leaders indicano le strade da seguire, sono sempre più deserti. Solo pochi si ostinano a frequentarli. Da noi l'unico disciplinato è l'esperto, ma ugualmente perdiamo il più delle volte l'orientamento e arriviamo a destinazione in piena notte, quando gli altri sono già a dormire. La « Interstate » scelta tocca città importanti del Sud. Houston è un miracolo di cemento. Il « Medicai Center », il santuario della speranza dove operano Cooley e De Bakey, è il punto d'arrivo per molti pellegrini di tutto il mondo. Intorno a loro è sorto da tempo un fiorente « commercio », ci sono convenzioni per il soggiorno in albergo, per il viaggio, propagandisti che organizzano la « trasferta della speranza » direttamente nei Paesi d'origine. Nella farmacia dell'ospedale conosciamo una famiglia di Avellino che ha accompagnato il padre colpito da « angina pectoris ». Il prodigio questa volta non è avvenuto. Ma veniamo a conoscenza di un altro singolare «mercato». Molti fanno scorta di medicinali introvabili in Italia o più semplicemente dotati di una migliore efficacia. Una specie di contrabbando di pasticche. Da Houston verso il deserto. Ci rendiamo conto subito che il trailer è un « mostro » delicato. Ci avevano detto: « Risparmiate il più possibile le apparecchiature, usate poco la corrente ». Un giorno proviamo ad accendere il condizionatore e si inceppa tutto: il frigorifero si blocca, la pompa dell'acqua gira a vuoto. Siamo nel Big Bend National Park, in Texas, al confine con il Messico. Il programma prevede due giorni di sosta. Saranno lunghissimi, sotto un sole implacabile, l'urlo dei coyotes sui monti che circondano la carovana. « Dovete aspettare, non è possibile far venire un tecnico per la riparazione », ci informano. Dobbiamo rassegnarci a mendicare un po' d'acqua dai colleghi per poterci lavare. Il secondo giorno, ormai gentilmente respinti da tutti, camminiamo per mezz'ora e possiamo raggiungere così una fonte, l'unica nel raggio di parecchie miglia. Per la strada, tra i rovi secchi e spinosi, tracce di serpi ci mettono più volte in guardia. Eppure in questo territorio inospitale ci sono delle piccole oasi. Ne troviamo una. C'è un mulino a vento in legno e ferro, corroso dal vento e dalla sabbia. Intorno un fitto bosco, terra un tempo coltivata, la casa di un colono. Una targa spiega che lì viveva una famiglia intera, che erano stati cacciati quando si creò il Parco. Adesso il posto è abitato dagli uccelli che si abbeverano alla pozza d'acqua sotto il mutino. E visitato dai turisti. Il ranch è entrato anche lui nella storia. Ogni sera la « Caravan America» stupisce. Sono i « western barbecue », una via di mezzo tra un pranzo in piedi e una festa mal riuscita. La fantasia degli americani supera ogni immaginazione. Una sera, ad El Paso, una città di frontiera con il Messico, ci invitano ad un party in nostro onore. Finiamo in un cantiere sperso tra i monti, con poche lampadine appese ai fili e tenute su dai chiodi e una strada di accesso piena di sassi e polvere. « Qui sorgerà un magnifico anfiteatro — dice una guida. — Una realizzazione superba, una meraviglia ». Ci guardiamo intorno: sacchi di cemento ammucchiati negli angoli, ponteggi, assi abbandonate, attrezzi da lavoro. Facciamo buon viso a cattivo gioco. Dopo una fila paziente, un cosciotto di pollo in una mano e una coca con ghiaccio nell'altra, ci spargiamo tra le gradinate. Ci sentiamo tanti operai durante la sosta di mezzogiorno. Solo che questa volta il « barachin » lo offre il Dipartimento dì Stato americano. La notte, dopo una cantata di un complessino volenteroso, partiamo per il Messico. Basta percorrere una decina di chilometri e, dove finisce El Paso, incomincia Ciudad Juarez. In mezzo c'è la frontiera, il ponte de Siviglia. Il confronto dei due mondi è stridente: scritte multicolori sulle povere case, taxi scassati, sciuscià messicani che vendono sigarette per le strade, tanta miseria, tanti mendicanti. Da pochi giorni hanno svalutato il peso, nell'aria si percepisce la fame di questa gente. Il giorno successivo c'è la visita ufficiale nella cittadina. In pullman, con tanto di scorta di grossi poliziotti, ci portano a vedere un centro nuovo, con tanti negozi e un magnifico ristorante. E' la parte « ufficiale », con l'esibizione nel rodeo, i funzionari dell'Ufficio del Turismo pronti a esaudire ogni desiderio. « Tutto il mondo è uguale » diciamo dentro di noi con amarezza. A Yuma, la leggendaria città dell'Arizona, un altro pranzo insolito. Questa volta hanno scelto le prigioni. Costruite alla fine del secolo, per gli americani sono già « storiche ». L'edificio è stato adattato a museo, in una sala hanno messo una serie di bacheche con, in bella mostra, fibbie, la cartucciera di un guardiano, foto di carcerati, la divisa di un tedesco. Questa « sete » di storia e la « profanazione » del banchetto sono difficili da comprendere. « Ma gli americani — dice un collega — sono gente strana, originale, molto attaccata a tutto e non agisce come gli europei ». Sarà, ma fa un po' senso mangiare a pochi passi dalle celle umide. Dall'Arizona una puntata a « Old Tucson », una finta cittadella western. Hanno rimesso tutto in ordine ricostruendo anche i mattoni con il fango. Vi hanno girato centinaia di film, c'è la chiesa resa celebre da un attac¬ co indiano. La stazione di Mezzogiorno di fuoco, il cimitero di tante inquadrature care alla nostra infanzia. Adesso è tutto per i turisti, organizzano finti duelli tra cow boys, si può mangiare in un saloon « dove ha bevuto John Wayne ». Gli americani sono orgogliosi di queste « copie ». E non pensano neppure di farcì visitare una città vera, come, ad esempio Tombstone. Ci pensiamo noi. Qui è tutto autentico, anche se restaurato con arte. Peccato che pensino solo ai verdi dollari. Ogni negozio è un minuto museo privato, ci sono raccolte di bambole, padelle, il tavolo d'epoca dove giocavano a poker i cercatori d'oro, pistole e fucili sono appesi alle pareti. Ciao sceriffo Dall'Arizona ancora un ricordo: il villaggio indiano. E', in altre parole, una riserva. Tutto funziona a meraviglia, i discendenti degli orgogliosi pellirosse cuociono il pane per i turisti, preparano ciotole in ceramica, vendono mocassini e collanine fatte a mano. Un'antologia di attività tradizionalmente indiane. « Non dicono però quanti sono analfabeti, i bambini malati, i problemi dell'emarginazione », commenta cattivo un collega. Ma il « lato difficile » del discorso passa subito in seconda linea, davanti ad una magnifica danza di guerra. In un angolo, un piccolo indiano coperto di penne beve una lattina di Coca: per lui l'epopea delle tribù dei padri è finita. Superiamo le Montagne Rocciose a fatica, rimuginando le ultime impressioni di viaggio. La strada ai lati ha grossi bidoni d'acqua. « Non forzate il motore — avevano suggerito i leaders. — Se vedete fumo, fermatevi e attingete dai bidoni ». Ci va bene. Di là c'è l'oceano Pacifico, la città di San Diego. Il nostro Bicentenario sta per finire. Ci rimangono ancora pochi giorni. Ne « rubiamo » altri cambiando la data del biglietto di ritorno. L'esperto si esibisce in un colloquio con il funzionario della compagnia aerea. Alla fine tutto è sistemato: ci fermeremo ancora a New York. La sera c'è l'addio dei colleghi della Caravan America. « Ho sistemato tutto — dice il nostro traduttore. — Io vado a Los Angeles, voi lavate l'auto, il trailer, lenzuola e tutta la dotazione. In più bisogna fare il pieno di benzina ». Obbediamo. E' l'ultima volta che subiamo le capacità linguistiche del nostro compagno di avventura. Per caso, in piena notte scopriamo che non bisognava fare nulla e che aveva fissato la sveglia per le 8, quando I l'aereo partiva alle 8,30. Un disastro, l'ultimo di una serie. Massimo Boccaletti Emanuele Monta Adriano Provera

Persone citate: Adriano Provera, Boccaletti Emanuele, Caravan America, Cooley, De Bakey, John Wayne, Juarez