Così ho visto i cinesi di Furio Colombo

Così ho visto i cinesi Così ho visto i cinesi Chi ha visitato la Cina ha soltanto buoni ricordi. I soldati sembrano operai, gli operai sembrano contadini, i contadini hanno un'aria serena, o almeno tranquilla, non disperata. Le donne e gli uomini sono uguali nel camminare, nel vestire, nel lavoro che fanno, il lavoro sembra bene organizzato e ben diviso, la povertà è chiaramente al di sopra della miseria, nel ricordo di coloro che hanno viaggiato in Cina dopo il 1970 resta l'impressione di un immenso brusio, di un silenzio tranquillo. La mia prima visita in Cina è avvenuta subilo dopo la fine della «rivoluzione culturale». Nonostante le valanghe di documenti, della rivoluzione culturale si sa ben poco. Perché è diventala subito materiale di scontro ideologico e politico, in Occidente. Oppure perché le traduzioni dei testi sono restate opere misteriose, prive di ambientazione senza una chiave per raccogliere le parole essenziali e distinguerle. Sulla Cina degli Anni Sessanta e la sua febbre di distruzioni e di cambiamenti resta un'ombra che si dissiperà lenta- mente, negli anni. O con qualche brusca rivelazione. Nella Cina nel 1970, quando la porta si era appena aperta alla prima delegazione europea (quella italiana, guidata da Zagari) ho avuto subito l'impressione di una grande convalescenza. Il mistero era doppio: che cosa è la Cina di Mao? Che cosa è successo durante la rivoluzione culturale? E' come entrare in un immenso convento, accolli da sussurri benevoli di chi vive un'altra vita in un altro mondo. La goffaggine dell'Europa dell'Est che imita disperatamente la piccola clusse media dell'Ovest e i suoi modelli, come simbolo di successo, qui è sparita. Ma è sparita anche l'Asia, con il suo tormento, la sua fame, e il «colore». I colori qui sono tenui, come le voci, come i gesti, come le sfilale che si sentono appena perché decine di migliaia di persone che sfilano su un viale grandissimo con le scarpe di tela quasi non fanno rumore. Ci sono ancora le «guardie rosse». Vedo i bracciali, vedo i cortei di studenti che portano in prima fila un quadro incorniciato con la figura di Mao. Mi spiegano che stanno partendo. Quando sono arrivati, perché, in quanti, che cosa hanno fatto, non è possibile sapere, nel 1970. Vedo per giorni sfilare questi cortei di giovani e giovanissimi con un piccolo sacco e una coperta di scorta, né marziali né sconfitti, né tristi né trionfali, che lasciano la città «per andare a lavorare in campagna». Tutti, dovunque, hanno in mano il libretto rosso. Oppure: non tutti. Solo coloro che ci accolgono, che ci salutano, che ci accompagnano nei luoghi che visitiamo. L'immensa folla che si muove intorno non ha il libretto o il bracciale delle guardie rosse. Sembra — ma non saprò mai se è soltanto un'impressione, un'idea «borghese» — che tutti siano «sollevati», tranquillizzati dalla fine di una prova che deve essere stata aspra. Immagini gigantesche di Mao si vedono dappertutto, non solo sulla Piazza della Pace Celeste o sulla porta del nostro albergo che è uno dei due aperto agli stranieri, in questi giorni. Ma all'ingresso dei cortili che circondano le case, sugli autobus, sui fianchi dei camion che vanno e vengono dalla campagna, sull'arco della Grande Muraglia e sopra le tombe dei Ming. Le immagini di Mao ci sono sempre, a Pechino. Ma non a Shanghai. Nessuno darà una risposta alla nostra sorpresa. Ma Shanghai è coperta di tadzebao che ci chiedono di non fotografare, e di grandi rappresentazioni murali della «lotta del popolo». I militari, che ci scortano dovunque, e sono sempre nelle delegazioni che ci ricevono, a Shanghai non entrane in fabbrica. «Gli operai sono come i soldati, non c'è bisogno dei soldati nelle nostre fabbriche» ci dicono con un sorriso, senza altri commenti. Ci sono altoparlanti con musiche, e comunicati, discorsi, cominciano presto la mattina, e finiscono presto nel pomeriggio, e il volume non è mai troppo alto. Una discrezione sembra dominare la presenza continua e non facile da definire, per noi, di ciò che tiene insieme la Cina. I colori si accendono, e i suoni si fanno esaltanti solo a teatro. Esistono, in quel tempo, solo i quattro «spettacoli esemplari» scritti e diretti dalla signora Chang Ching, moglie del presidente Mao. il teatro politico della signora Chang Ching è come un presepio animato: scene di vita in cui sono sempre comprese la promessa, la passione, la morte (il caduto, l'eroe) e la resurrezione (quando tutte le luci si accendono, puntano sul viso dell'eroe positivo che ha i colori esagerati della vittoria, la folla applaude ritmando, la musica sale fino a che tutti si alzano in piedi). Quando ritorno nel 1972 (nella primavera Antognoni stava lavorando insieme a Barbato al suo documentario «Chung Kuo») mi sembra di avere viaggiato nel tempo, più che nello spazio. Sull'arco centrale della Grande Muraglia si vede benissimo la traccia del ritratto di Mao che è stato rimosso. I libretti rossi si possono comprare o avere in omaggio. Nessuno li offre o li sventola, qualcuno sorride alla richiesta di averli. Rispetto o addirittura amore sono due parole che si possono usare ancora per Mao. Ma intorno a questa stella fissa sulla Cina sembra muoversi un mondo più sereno, con qualche istante di vacanza, qualche spunto appena percettibile di allegria. I parchi sono pieni di gente che si riposa, i palazzi imperiali sono aperti, ben tenuti e affollati, sui laghi intorno a Pechino scolaresche e giovani coppie sembrano libere dalla preoccupazione di annullare nell'impegno collettivo la loro vita privata. Anche il teatro è cambiato. Una sola volta insistono perché Antonioni vada a vedere uno spettacolo. E non gli fanno vedere niente di «esemplare», ma il nuovo lavoro di un gruppo di provincia. Racconta la guerra, la rivoluzione, la liberazione, come sempre. Ma al centro c'è una storia d'amore e nasce un bambino, accolto da grandi applausi nella platea un po' slabbrata del cinema trasformato in teatro (il nuovo gruppo non è così potente da avere a disposizione le sale ufficiali della signora Ching). E c'è un altro episodio, che Ito già raccontato. Vogliono assolutamente farci vedere il «Conservatorio delle arti popolari». E' una accademia d'arte bene organizzata, con un delicato rispetto per quelli che noi chiameremmo «i valori tradizionali della cultura borghese»: la musica sinfonica, la danza, la pittura, i libri antichi. La visita alla parte più preziosa della biblioteca svela una nuova libertà di intrattenere il visitatore su certi aspetti del dramma interno. Il vecchio professore che ci guida spiega che è riuscito a salvare questi volumi sottraendoli al rogo delle guardie rosse, impegnate a far pulizia del «passato». L'hanno aiutato i suoi studenti, e lo ha incoraggiato Ciu En-lai in persona. Ci dice che proprio Ciu En-lai, nei momenti più confusi della rivoluzione culturale, ha aiutato intellettuali e studenti a comporre quest'arca di isolamento e di salvezza. E' la prima volta che affiorano confidenze e racconti. E' lo stesso periodo in cui si viene a sapere che la rivoluzione cultU' rale ha portato scontri sanguinosi, esecuzioni, morti. L'ultimo viaggio in Cina (una andata e un ritorno dal Sud verso il Nord) è avvenuto in un inverno in cui tutto sembrava essersi raggelalo e chiuso, non solo la natura. E' la Cina tesa e preoccupata che assiste alla morte misteriosa di uno dei suoi grandi, Lin Piao. Quello che viene dopo è un periodo sfuocato, in cui le immagini si fanno più incerte e i riferimenti, le traduzioni della cultura occidentale, meno misteriose ma forse più ambigue che nel tempo della rivoluzione culturale. La stella di Mao è sempre al centro del cielo, ma circondata di nubi. C'è la paura della morte, del vuoto, del dopo. C'è la lotta fra gruppi che i commentatori occidentali cercano di definire come «moderati» e «radicali», senza sapere se i termini si riferiscono al carattere, all'ideologia o alla politica. Un Mao fisicamente sempre più debole stringe la mano dei visitatori da una distanza che sembra sempre più grande. Durante questo lungo e ansioso crepuscolo è diventata più visibile la dimensione di un'altra figura a cui nessuno ha dedicato la celebrazione che ora esplode intorno al corpo di Mao: quella di Ciu En-lai. Forse i sinologhi, gli esperti, dovrebbero ricordare e cercare di chiarire, oggi, gli incidenti accaduti ai funerali del solo compagno di Mao che non lo ha mai abbandonato e che non è stalo mai abbandonato. Forse c'è stata, sulla bara di Ciu una disperazione rabbiosa che non si ripeterà alle esequie monumentali del «grande presidente». Molti devono avere capito che una parte della Cina finiva allora, con Ciu. Che Mao era morto allora. Che i mesi seguenti sarebbero stati di tensione e di lotta intorno al letto di un dio morente. Ora il vuoto a noi sembra completo, perché non abbiamo mai sapulo quale Cina era in attesa alle spalle del dio morente. Abbiamo visto la gente, e sappiamo che una rivoluzione durissima, a un prezzo che in gran parte non si conosce, ha fatto con essi un mondo salvato dalla tragedia dell'Asia, un Paese di gente orgogliosa che non muore di fame, un popolo che pesa non solo per il suo numero immenso. E' inutile dire le celebrative parole di Han Suyn: « Il vero erede del potere di Mao sarà il popolo ». Qualcuno, gruppo o persona, occuperà il luogo e la funzione che si chiama « potere ». Il vuoto che non sarà colmato è un altro. E' la straordinaria immagine carismatica, la figura del mito. Forse sapremo in seguito che questo mito — il solo, di queste proporzioni, nella storia contemporanea — ha avuto in Ciu En-lai un gran sacerdote che è stato anche un partecipatore creativo. Mao e Ciu sono stati la Cina che ha avuto la grande intuizione di usare forze morali, culturali e motivazioni psicologiche in luogo della potenza fisica e della organizzazione perfetta che non esistevano. Tra tutti i « misteri» cinesi che saranno svelati solo dagli anni e dalla storia, il più straordinario e grandioso è il movimento di persuasione che la guida di Ciu-Mao ha saputo costruire e mantenere sempre in vita. Un fenomeno grande come sono state grandi a volte le religioni, mai le organizzazioni politiche. La Cina che oggi chiude la sua stagione ha usato la cultura, la pedagogia, la più raffinata scienza delle parole e delle comunicazioni con una acutezza e una perfezione che fa impallidire le più sofi¬ sticate società delle comunicazioni di massa. La parola « propaganda » non serve, nel caso cinese, perché la propaganda è puro strumento, un megafono a disposizione di chiunque abbia un potere. Quello che sappiamo della Cina è che non il potere è stato il capolavoro di Mao (o di Ciu-Mao) dal momento che trapela l'immagine di un Paese solcato da tanti tipi di divisione, geografica, politica, tradizionale, etnica, di gruppi e di persone. Il capolavoro è stato il delicatissimo meccanismo di onnipresenza, di immagine, di parola, di persuasione, che ha potuto legare anche dove non legava il potere, ha potuto ordinare anche dove non funzionava l'obbligo, e ha potuto unificare sopra o sotto le maglie degli apparali organizzativi, dei poteri locali e delle tensioni centrati. Chi ha visitato la Cina, ho detto, ha soltanto buoni ricordi. Ripensandoci, ora, sa che quel contatto effìmero, di impressioni e di immagini, privo di discussioni e di prove, un delicato film muto su un universo armonioso, non è « superficiale » o « illusorio ». E' stato il capolavoro della tecnica di comunicazione realizzata da Ciu e da Mao, il misterioso organigramma delle persuasioni che raggiunge e coinvolge le centinaia di milioni, con o senza « i capi intermedi ». Sussulti duri e anche sanguinosi (come gli episodi più cupi della rivoluzione culturale e la morte di Lin Piao) non hanno smagliato la rete del più grande sistema pedagogico di questo secolo. La rete si è spezzata adesso, nell'anno del terremoto e della morte del padre? Ce lo dirà il linguaggio della « nuova classe ». Furio Colombo