La Cina cerca un capo di Alberto Cavallari

La Cina cerca un capo Il popolo e lo Stato dopo la morte di Mao La Cina cerca un capo Chi c'è oggi al vertice Due sono le successioni aperte in Cina. La prima riguarda Mao come capo spirituale del radicalismo rivoluzionario mondiale, come leader del comunismo asiatico, come organizzatore di utopie, di speranze, in qualche modo antitetiche al «realismo» di Lenin, infine come capo carismatico di ottocento milioni di cinesi. La seconda riguarda Mao come guida di un partito che, in base alla seconda costituzione, «è il nucleo dirigente del popolo cinese tutto», e «dirige lo Stato per conto della classe operaia». Inoltre riguarda la continuità del «modello cinese», l'identità stessa della Cina. La prima successione è certo impossibile, data l'irrepetibilità dell'avventura umana e politica di Mao, le dimensioni del suo personaggio storico, l'originalità della sua «dittatura pedagogica» basata, come scrisse Hobsbawm, sulla convinzione che (d'utopico sia più razionale del razionale se non si nega all'uomo il diritto d'essere un animale che spera». La seconda successione è invece problematica, per l'assenza di un erede designato, per le difficoltà obbiettive di una designazione da parte del partito che, secondo, le scelte, consensuali o forzate, può perdere identità, determinare diversi rapporti con lTJrss e con gli Usa, alterare l'equilibrio internazionale. La Cina, al momento della scomparsa di Mao, offre il seguente quadro politico. Quattro uomini (Hua Kuofeng, Wang Hung-wen, Yeh Chien-ying, Li Teh-sheng) sono vicepresidenti del comitato centrale del partito di cui Mao era presidente. Quattro uomini (Wang Hung-wen, Yeh Chien-ying, Li Teh-sheng, Chang Chiunchiao) sono, membri del comitato permanente dell'ufficio politico, cioè nel vero vertice del potere. Tenendo conto che Li Teh-sheng pare momentaneamente sospeso dagli incarichi, gli uomini che reggono il partito, in organi diversi, sono quindi quattro. Tra essi può emergere l'erede, da essi formarsi una direzione collegiale. Come traspare da questo quadro il vertice appare piuttosto scompensato. Per esempio, Hua Kuo-feng, capo, del governo e vicepresidente del comitato centrale, non appare come membro del comitato permanente; e se le cose non sono cambiate in questi giorni, sembra privo di poteri completi, considerando soprattutto che il comitato centrale è in crisi dopo la lotta contro Teng Shiao-ping, che non si riunisce da tempo., e che le sue decisioni sono effettivamente prese dal comitato permanente. Si può poi considerare che Chang Chiun-chiao, escluso dalla presidenza del comitato centrale, non solo è membro, del comitato permanente, ma anche vice primo ministro e capo del dipartimento militare. Subordinato a Hua Kuo-feng sul piano del governo, privo di vicepresidenza del comitato centrale, questo «numero due» è quindi più forte del «numero uno», per la sua triplice presenza nel partito, nel governo, nell'esercito. Pertanto, è dalla soluzione di questi scompensi che si giungerà alla successione. Quanto ai quattro personaggi chiave si possono poi fare le seguenti osservazioni. Hua Kuo-feng, primo ministro, vicepresidente del comitato centrale, è considerato uomo di mediazione, scarsamente «ideologico» del punto di vista maoista, ricco di potere per aver condotto l'inchiesta su Lin Piao, per aver controllato, la polizia sotto Ciu En-lai, e quindi un tipico rappresentante della generazione media, che ha saputo destreggiarsi nella lotta tra «destra» e «sinistra» scoppiata nel '76. Yeh Chien-ying, ottantenne, ulti¬ mmmpsqdcTcc«tvpsmczmrmm mo superstite della lunga marcia, è stato chiamato al ministero della Difesa nel '75 perché considerato abbastanza innocuo dopo che da questo posto sono scattate le due più pericolose offensive contro Mao, prima con Peng Teh-huai, successivamente con Lin Piao. Chang Chiunchiao, sessantenne, classico «uomo di Shanghai», animatore della sinistra, della rivoluzione culturale, del suo proseguimento, ha una indiscussa autorità ideologica maoista, coronata dal fatto che il rapporto sulla costituzione del '75 porta la sua firma. Wang Hung-wen, quarantenne, altro classico «uomo di Shangai», anch'egli considerato leader della sinistra, divide con Chang il primato d'autorità ideologica per aver preparato il rapporto del X Congresso del '73, e per aver portato avanti tutte le «campagne» del 1975-76 sui «residui borghesi» e sulla «dittatura del proletariato». Sommando tutti questi dati si può certamente dire che una successione del vecchio Yeh sarebbe interlocutoria, per ragioni anagrafiche, ammettendo che si verifichi. Pertanto il problema si circoscrive a tre uomini, per quanto non si debba dimenticare che vi sono personaggi di outsider come Yao Wen-yuan. Escluso dal vertice, Yao è pur sempre membro dell'ufficio politico. Negli ultimi due anni ha firmato i testi delle campagne ideologiche portate avanti da Mao. La sua fama di «delfino» non è tramontata malgrado gli altri suoi compagni di Shangai, Wang e Chang, l'abbiano superato sul piano operativo. La casistica è co munque abbastanza circoscritta per capire che la sue cessione si consumerà nell'ambito della vecchia contrapposizione tra maoisti puri e apparato del partito. Senza mettere in causa la «fedeltà» di Hua Kuo-feng, non c'è dubbio infatti che l'uomo rappresenta più l'amministrazione che l'ideologia; e dietro, a lui possono schierarsi non solo i seguaci dell'eliminato Teng Shiaoping, ma tutti i «quadri» di un partito che per lunghi anni ha subito la logica delle epurazioni e delle riabilitazioni maoiste. Rigenerato da molte «campagne di rettifica», dissolto, nel 1965 con la rivoluzione culturale, ricostruito con le riabilitazioni successive, il partito è stato infatti riconosciuto degno (come in Urss) di «dirigere lo Stato e il popolo cinese tutto». Ma è stato riconosciuto tale solo con la costituzione del '75, e la sua promozione a questo ruolo è avvenuta sul presupposto che l'oligarchia maoista e il partito si fossero definitivamente fusi dopo conflitti che datano dal 1927. Tuttavia le vicende del '75-'76 hanno dimostrato che questa unità non si è creata. In febbraio, il Quotidiano del Popolo ha chiaramente scritto che il comitato centrale «era spaccato in due». Per quanto i maoisti abbiano vinto la lotta contro Teng, appoggiati da Mao, la spaccatura ha mostrato un partito renitente alla «rivoluzione ininterrotta», al proseguimento del «messaggio utopico». Impossibile pensare a una sua nuova, e rapida, rigenerazione in sei mesi. Irreale l'ipotesi di una sua facile sottomissione senza il potere carismatico di Mao. Qual è lo stato del partito comunista in Cina? La domanda di fondo, rispetto alla successione, è senza dubbio questa. La crisi recente ha confermato il riaprirsi del vecchio conflitto tra oligarchia maoista e apparato classico. La spaccatura che Mao sapeva risolvere, coi suoi famosi colpi di forza, e con la sua «pedagogia di massa», è un dato incontrovertibile del presente. Pertanto, la successione stessa comporta un «momento di verità» drammatico per l'identità del comunismo cine¬ se. Il maoismo è stato solo una prodigiosa impresa individuale? è diventato davvero logica profonda di un partito? possono i «delfini dell'ideologia» prevalere sull'apparato? E' dalla risposta a queste domande, infatti, che nascerà la scelta; e dalla scelta l'eventuale modificazione di rapporti della Cina con l'Urss, della Cina con gli Usa, della Cina col mondo. Alberto Cavallari o Gv Pechino. Cinesi sostano davanti al ritratto di Mao sulla « Porta della pace celeste »