Quando i terremoti colpiscono le Regioni di Mario Salvatorelli

Quando i terremoti colpiscono le Regioni Funzionano le autonomie locali? Quando i terremoti colpiscono le Regioni Dagli statuti — quindici ordinari e cinque speciali — delle venti Regioni italiane, non risulta quali poteri spettino agli amministratori locali, in occasione di eventi eccezionali. In questi ultimissimi tempi ne abbiamo avuto, purtroppo, un'esemplificazione completa. C'è stata una calamità «naturale» (si fa per dire), come il terremoto del Friuli, più grave, per numero delle vittime ed estensione dei danni, di quello registrato, quasi nove anni fa, all'altro estremo d'Italia, nel Belice. C'è stata una sciagura d'origine umana, ma che per la sua dimensione e per le sue conseguenze è sconfinata nelle calamità naturali, come la nube di Seveso. C'è stato, infine, un evento d'orìgine del tutto umana, ma anche questo di dimensioni incalcolabili, come la crisi economica mondiale del 1974-75, la più grave in periodo di pace di questo secolo, dopo quella del 1929. In tutti questi eventi le autorità regionali hanno mancato una grossa occasione per dimostrare che l'autonomia locale, sancita dalla Costituzione della Repubblica italiana, era ed è giustificata. Difficile stabilire, soprattutto in materia così fresca, quasi «de jure condendo», di legge da fondare, la linea di demarcazione tra il fallimento dei poteri centrali e il fallimento dei poteri locali. Si può aggiungere, forse, che di fallimento si tratta solo per il terremoto del Belice e per i 350 miliardi — uno più, uno meno — che negli anni post-cataclisma sono stati inghiottiti senza lasciare traccia. E' ancora presto per dare un giudizio definitivo sull'azione, o l'inazione, delle autorità «competenti», centrali e locali, per il terremoto del Friuli, anche se per le popolazioni colpite è già troppo tardi. Difficile veder chiaro — non è un gioco di parole — nella nube di Seveso, e nel palleggiamento di responsabilità che ne è scaturito. Sarà oggetto, infine, di grosse e documentate relazioni, in futuro, il comportamento delle varie autorità regionali in occasione della crisi economica, ma qualche morale se ne può già trarre. Un anno fa, nella prima metà di ottobre, si svolse a Torino la «conferenza regionale per l'occupazione, gl'investimenti e lo sviluppo economico», con larga partecipazione di amministratori, industriali, sindacalisti, uomini politici ed economisti. Alla vigilia della conferenza, in un articolo su l'Unità — di cui ha poi ripreso i concetti essenziali durante i lavori del convegno — Lucio Libertini, vicepresidente della Regione Piemonte, affermava: «In termini statutari, i poteri regionali in materia industriale sono insignificanti. Ma ci era impossibile declinare le nostre responsabilità al riparo di questo alibi di ferro.... In assenza di una programmazione nazionale, e mentre la stessa costituzione d'una politica economica regionale è carente e contraddittoria, riteniamo necessario far la nostra parte: definire risorse e possibilità, individuare soluzioni, decidere scelte...». E' passato un anno. Il Piemonte, una delle regioni più colpite dalla crisi economica, si sta risollevando, e potrà riprendere il suo sviluppo economico, se non gli metteranno troppi bastoni tra le ruote. Ma — e questa è una domanda, non un'affermazione — che cosa è uscito dalla conferenza regionale? Sono state definite risorse, individuate soluzioni, decise scelte? Quanti posti di lavoro nuovi sono stati creati, e che cosa è stato fatto per di¬ fendere le aziende in crisi? Che cosa ha fatto e sta facendo la Regione per impedire una politica punitiva per l'automobile, che sarebbe «priva di senso sotto il profilo della tassazione e del prezzo del carburante», sono ancora parole di Libertini, in particolare per una regione come il Piemonte, la cui popolazione attiva è occupata per il 52 per cento nell'industria, che a sua volta è sostenuta per i due terzi dall'automobile (sono sempre calcoli di Libertini)? Gli esempi che fanno sorgere dubbi sull'efficacia dell'autonomia regionale potrebbero continuare, anche a livelli meno eccezionali di quelli già esposti. E' di oggi la notìzia che i consiglieri regionali della Regione Toscana si sono aumentate le retribuzioni, sia sotto forma d'indennità sia a titolo di rimborso spese, per adeguarsi — leggo su La voce repubblicana — «alle variazioni dell'indennità dei membri del Parlamento nazionale». E' pure di oggi la vicenda dell'Alfa Romeo che non riesce ad assumere ad Arese qualche centinaio di lavoratori generici, perché la Regione Lombardia ha «chiesto» di dare la precedenza ai disoccupati lombardi (che pare non esistano, quanto meno non siano disposti a lavorare in fabbrica). Non è di oggi, invece, la politica della Regione Emilia-Romagna? Che non si limita a rilanciare il ballo «liscio», e fin qui nulla da obiettare, ma ha spinto il suo ritorno al passato fino a instaurare una quasiautarchia nell'impiego delle risorse umane. Se il Piemonte si fosse comportato nello stesso modo, quante centinaia, di migliaia di meridionali sarebbero stati costretti a emigrare all'estero? Infatti, in dieci anni, dal censimento 1961 a quello del 1971, la popolazione del Piemonte è aumentata del 13,3 per cento, quella dell'EmiliaRomagna solo del 4,8 per cento, non certo per una minore prolificità. E nei tre anni seguenti, dal 1972 al 1974, le nuove iscrizioni alle anagrafi di persone provenienti dal Mezzogiorno sono state oltre 137.000 in Piemonte, e meno di 40.000 nella più vicina Emilia-Romagna. Mario Salvatorelli

Persone citate: Lucio Libertini