Quel giorno sull'Ussuri
Quel giorno sull'Ussuri Quel giorno sull'Ussuri Sabato 15 marzo 1969 fu il giorno che l'Unione Sovietica e la Cina sfiorarono la guerra. La notizia scoppiò come una bomba nella sera gelida, animando Mosca intorpidita dalla neve. Ricordo lo scampanellìo della telescrivente della Tass nella oscurità incipiente. « Un grosso distaccamento di soldati cinesi, appoggiato da cannoni e da mortai, ha attaccato le nostre guardie di frontiera all'isola Damanskij, sul fiume Ussuri. Ci sono stati morti e feriti... Il governo dichiara che, se sa¬ ranno lesi i diritti dell'Urss, se saranno compiuti ulteriori tentativi di violare il suo territorio, reagirà con la i lon& ». Si seppe più tardi, dalla viva voce dei protagonisti, che i sovietici avevano avuto « alcune decine » di vittime (60?) e i cinesi « alcune centinaia» (800?). La battaglia era infuriata per sette ore, e vi avevano partecipato truppe motocorazzate. Disse un soldato che « la superficie ghiacciata dell'Ussuri e le rive nevose erano ricoperte di proiettili e di san¬ gue ». Con meraviglia, noi occidentali a Mosca vedemmo apparire sui giornali, prima spenti per la censura, le vivide fotografie della battaglia e dei caduti, e resoconti accesi, impressionanti. La crisi era venuta maturando da un paio di settimane a quella parte. Le prime avvisaglie s'erano avute domenica 2 marzo con un altro annuncio della Tass: « Alle ore 4,10 di stamane, le autorità cinesi hanno compiuto una provocazione armata al posto di frontiera di Nishne Michajlovka » (pres- so l'isola Damanskij). « Si lamentano morti e feriti ». Il ministro degli esteri sovietico aveva inviato a Pechino una nota di protesta, minacciando rappresaglia. Ma la nota era stata respinta, con un'accusa di criminalità. Il 4 marzo, la situazione era parsa aggravarsi. In Cina centinaia di « guardie rosse » avevano assediato l'ambasciata dell'Urss a Pechino, e milioni di altre avevano impiccato in effigie Breznev e Kossighin in tutto il paese, urlando: « A morte i nuovi zar ». A Mosca, il 7, ad una tumultuosa conferenza stampa, il portavoce Zamjatin aveva distribuito a noi occidentali le fotografie dei caduti russi dell'Ussuri. « I soldati cinesi » aveva detto « hanno trafitto i cadaveri con le baionette. I volti di taluni dei nostri morti sono mutilati al punto da non riconoscerli ». Quello stesso giorno, e il giorno successivo, assistemmo al più straordinario spettacolo di folla della nostra vita. Oltre 100 mila moscoviti sfilarono davanti all'ambasciata della Cina, in via dell'Amicizia, nella più imponente dimostrazione organizzata dalla sepoltura di Stalin. Ricordo che arrivavano a scaglioni dalle scuole, dalle fabbriche, dagli uffici, su autobus e camion militari, incolonnati a piedi, le bandiere rosse in testa, cantando l'Internazionale. Il colonnello della polizia a cavallo li attendeva all'inizio della strada, alcuni fogli in mano, e ne dirigeva la sfilata, per evitare incidenti. Praticamente senza interruzione, Mosca protestò per quarantotto ore contro « l'aggressione maoista ». / dimostranti inalberavano cartelli con su scritto « Abbasso la cricca di Mao » e « I sacri confini della patria sono inviolabili ». Bottigliette d'inchiostro spaccarono i vetri delle finestre e sporcarono i muri dell'ambasciata. Si dimenticò persino che il 9, domenica, era la festa della donna, una delle più care al cuore russo. Ma la folla fu disciplinata e ligia alle istruzioni, e i cinesi restarono rintanati nelle loro residenze. Pensammo che il peggio fosse passato e la crisi in via di superamento. Ma venerdì, 14 marzo, in Cina il ministre della Difesa Lin Piao annunciò: « Otto milioni di soldati e di civili si stanno preparando alla guerra nel Sinkiang » (la regione di confine dove sorgono le basi nucleari cinesi). E aggiunse: « Se la Russia vuole combattere, la stermineremo ». Avremmo appreso più tardi dal Sunday Times che Lin Piao aveva organizzato la resistenza a un'invasione, mobilitando 50 divisioni alle frontiere. E tuttavia, quel 15 marzo nessuno ebbe presagio di una catastrofe imminente. Non so come Mosca e Pechino evitarono il conflitto globale dopo la battaglia del 15. Certamente, non vi fu mediazione dell'America: la diplomazia del ping-pong era lontana, Mao Tse-tung saggiava ancora il neopresiden te Nixon. Ricordo che la tensione rimase molto alta sino a fine mese. Poi, il 29, il ministero degli Esteri sovietico propose trattative per la demarcazione dei confini. Al IX Congresso del pc cinese, ad aprile, Lin Piao fu insultante. Egli definì la teoria brezneviana della sovranità limitata « un'invenzione dei rinnegati russi per giustificare le loro aggressioni » e l'ordine nell'Est europeo « simile a quello di Hitler ». Ma in linea di principio accettò l'offerta. Sondaggi di pace, quale l'accordo del 9 agosto dello stesso 1969 a Chabarovsk per la navigazione sull'Ussuri e sull'Amur, si alternarono per un po' di tempo a nuovi, sanguinosi scontri, come quello di Shalan Ashjal, tra il Sinkiang e il Kazachstan sovietico. Finché, d'improvviso, VII settembre, Ciu En-lai e Kossighin s'incontrarono a Pechino, dove il leader cinese costrinse l'ospite a negoziare nella sala d'aspetto all'aeroporto, impedendogli l'accesso a Mao Tse-tung. Riferì la Tass che i due capi di governo « spiegarono apertamente le reciproche posizioni, in una conversazione utile a entrambi ». A tutt'oggi s'ignora che cosa si dissero realmente. Kossighin, che s'era staccato dal suo itinerario in Asia per vedere Ciu En-lai, rientrò a Mosca taciturno come sempre. Ma in breve tempo, le trattative ebbero inizio. Molti russi tirarono un respiro di sollievo. Sarebbe toccato ai cinesi rompere il riserbo, e svelare come il loro leader aveva congedato l'ospite. Dicendogli: « Non combatteremo. Ma il nostro confronto ideologico durerà altri 10 mila anni ». Ennio Carette Pechino. Una delle prime immagini degli scontri fra russi e cinesi sul fiume Ussuri
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