Quello che si dice negli Usa Perduto un prezioso amico

Quello che si dice negli Usa Perduto un prezioso amico Quello che si dice negli Usa Perduto un prezioso amico (Dal nostro corrispondente) Washington, 9 settembre. Un grande terremoto — dice la tradizione popolare cinese — annuncia e precede la fine di una grande dinastia e la leggenda si è provata vera: gli Stati Uniti si augurano oggi che il terremoto non preluda anche alla fine di una politica. Si può riassumere così, in breve, il sentimento che prevale a Washington, di fronte alla notizia della morte di Mao Tse-tung, un fatto che, nella imprevedibilità delle conseguenze, innervosisce l'America già tesa della vigilia elettorale. Tracce evidenti di questo nervosismo appaiono nelle prime reazioni ufficiali alla morte: Kissinger non ha voluto commentare, dicendo che «nessuno può dire di sapere che cosa accadrà ora a Pechino ed è necessario aspettare», mentre Ford ha emesso un comunicato dai toni persino sorprendenti: «Il presidente Mao — ha detto — era un uomo eccezionale, un grandissimo uomo. Fu lui ad avere la visione e l'immaginazione politiche necessarie ad aprire le porte della Cina, per permettere alla sua nazione e agli Stati Uniti di operare in una nuova era e in un nuovo giorno. E' dunque una tragedia che un uomo di tale abilità, talento, visione e preveggenza sia morto». Nell'enfasi del comunicato (non ricordiamo un tal consumo di aggettivi nel recente passato) traspare chiaramente l'inquietudine americana per il futuro dei rapporti cino-statunitensi e per il quadro più ampio ed essenziale delle relazioni con l'Urss, di cui la Cina era un cardine indispensabile. Anche Carter, il candidato democratico alla Casa Bianca e gran favorito per la presidenza '76, ha espresso la speranza che la morte di Mao «non intaccherà le relazioni fra gli Usa e la Cina». «Uno dei grandi e rarissimi risultati della amministrazione Nixon — ha detto Carter con il pensiero rivolto alle elezioni — fu l'apertura verso la Cina e ciò avvenne grazie a Mao Tse-tung ». Dunque, mentre a Taiwan i cino-nazionalisti ballano nelle strade e festeggiano la scomparsa del loro nemico, a Washington si commemora Mao come un prezioso amico perduto. Dimenticate sono le guerre e le incompatibilità ideologiche, dimenticato è il fatto che la matrice politica del maoismo è anti-imperialista e anti-americana prima e sopra di tutto, cosi come nessuno ricorda le parole di Nixon nel '60, la sua descrizione della Cina popolare come di «un'immensa, sanguinosa prigione, il più grande insulto all'umanità dalla Germania di Hitler». L'aguzzino nixoniano è divenuto «il grandissimo e previdente leader» che oggi Ford rimpiange. | j satIrKzlnpviipmsdmbrtmrDg | La storia consuma sempre j se stessa, e nella vicenda cinoamericana essa si è consuma ta con eccezionale rapidità. In vent'anni, dal conflitto coreano alle missioni segrete di Kissinger nel '71, le due nazioni hanno percorso una delle più lunghe marce di avvicinamento nella storia della diplomazia contemporanea, travolgendo una generazione di intellettuali sedotti dal mito e inconsci delle realtà. Oggi, al pellegrinaggio dei nuovi comunisti a Pechino si sono sostituite visite di personaggi, da Strauss al capo di stato maggiore francese, che sembrano un presepe dell'«imperialismo». In questo momento è in Cina addirittura James Schlesinger, l'ex direttore della Cia e ministro della Difesa, allontanato dal Pentagono pochi mesi fa per le sue posizioni esageratamente oltranziste. Il terreno di incontro, il piano inclinato sul quale scivolarono tutti gli ostacoli ideologici che parevano frapporsi ad un amichevole rapporto Pechino-Washington, fu naturalmente l'Unione Sovietica. Per ragioni diverse, ma con eguale intensità, la Cina popolare e gli Stati Uniti si trovarono quasi naturalmente a fianco l'uno dell'altra, impegnati nell'opera di contenimento pacifico dell'Unione Sovietica. Nei cinesi, Nixon e Kissinger videro il naturale compendio ad una politica verso l'Urss che avrebbe peccato altrimenti di eccessiva bilateralità e avrebbe lasciata libera, pericolosamente libera, l'incognita cinese. Pechino, oltre all'ovvia necessità di avvicinarsi ai «nemici dei suoi ne- mici», lesse nell'apertura americana la possibilità di sancire la sua emergenza quale terzo polo mondiale. Il 1971 fu l'anno chiave in questa straordinaria avventura politica che oggi la morte di Mao sembra poter rimettere in causa. La Repubblica popolare cinese fu ammessa all'Orni, e il voto contrario degli Stati Uniti non impedì a Kissinger, allora emissario quasi privato di Nixon, di compiere a Pechino missioni prima segrete e poi pubbliche, che prepararono la visita del Presidente. Così, all'inizio del 1972, Nixon potè annunciare alla televisione che il presidente Mao Tse-tung gli aveva «esteso l'invito» a recarsi in Cina in maggio. La «carta di Shangai» sancì più tardi il nuovo rapporto fra le due nazioni, che Ford, un anno dopo la sua assunzione alla presidenza, nel 1975, tornò a sancire, in una fotografia ormai simbolica a fianco del presidente Mao palesemente senile e malato. Oggi, mentre i giornali e le emittenti radio-tv americane dedicano pagine ed ore a colui che Edgar Snow definì «il più grande costruttore e il più grande distruttore del nostro tempo», ci si interroga ansiosamente sul futuro. I da ti sui quali giudicare sono po chi e troppo inquinati dai miti, dalla propaganda, dai pregiudizi per poter distillare un giudizio valido. L'Occidente già sbagliò clamorosamente intuendo in Teng Hsiao-ping 11 potenziale successore di Mao e vedendolo invece scalzato da Hua Kuo-feng. A Washington, forse come residuo di antiche bugie propagandistiche, qualcuno teme che la Cina comunista possa sbriciolarsi per la scomparsa di Mao, di fatto identificando la Repubblica popolare cinese con il suo creatore e fondatore e capo da 27 anni. Altri, come l'ex segretario di Stato Dean Rusk, sono convinti che la struttura voluta da Mao reggerà all'inevitabile batta glia per la successione e prevede un periodo di collegialità — certo fragile e transitoria — un poco sull'esempio del dopo Stalin. Lo stesso Rusk invita tuttavia a non formulare categoricamente nessuna previsione. Per gli Stati Uniti, il problema del futuro cinese può comunque essere riassunto in termini abbastanza semplici: chi emergerà dallo scontro per la successione di Mao dovrà, per non sconvolgere il quadro della politica estera americana, essere ancora an ti-sovietico, ma insieme capa ce di tenere dietro di sé il Paese e la classe dirigente. Un leader anti-sovietico, dunque interessato alla continuazione del rapporto privilegiato con gli Usa, ma debole dunque alla testa di una Cina divisa e scossa lascerebbe la forma, ma toglierebbe la sostanza del bipolarismo che risiede nell'affermazione della Cina come potenza mondiale temibile. Qualche motivo di conforto gli analisti americani trovano nel pensiero che la scelta fatta da Mao nel 1971 certamente fu anche espressione di un pensiero diffuso nel partito comunista cinese e nata da necessità politiche ed economiche trascendenti le persone al vertice. Ma, al di là delle considerazioni immediate, rimane il pensiero che un'altra delle figure politiche che aveva disegnato il panorama del mondo postbellico è scomparsa: se è vero che anche il Presidente americano è condannato alla sconfitta elettorale e il segretario del pcus Breznev potrebbe riaccusare la malattia che lo minacciò lo scorso anno, dal 1977 potremmo assistere ad una partita interamente nuova fra le potenze-chiave. Vittorio Zucconi chino. L'incontro storico tra Mao Tse-tung e Nixon nella residenza del presidente cinese (Foto Grazia Neri)