Nel cratere di ghiaccio sul "tetto dell' Africa" di Gigi Mattana

Nel cratere di ghiaccio sul "tetto dell' Africa" Una spedizione di dodici alpinisti, italiani e francesi alla conquista del Kilimanjaro Nel cratere di ghiaccio sul "tetto dell' Africa" Il cuore sembra impazzire nell'ultima marcia per raggiungere la mitica vetta (5895 metri) - Vista stupenda, ma s'è storditi dall'altitudine (Dal nostro inviato speciale) Marangu (Tanzania), 8 settembre. La prima notte sulla via del Kilimanjaro trascorre tranquilla: sveglia alle 6, colazione e subito in marcia. Il gruppo non procede compatto ma ognuno può scegliersi l'andatura che più gli aggrada, mentre in genere Fataeli segue l'ultimo della fila. Ancora un'ora di giungla, molto ripi- i da, una specie di interminabile scalinata di radici scivolose, poi finalmente sbuchiamo all'aperto, su vasti pianori di erba alta e giallastra, inframmezzata qua e là da macchie di minuscoli alberi: quella piccola porzione di Kilimanjaro che potremmo scorgere di qui come al solito è avvolta dalle nubi e continuiamo a marciare sotto il sole in un cammino che pare improduttivo. Infatti appena raggiungiamo una cresta e speriamo di vedere finalmente la montagna o il prossimo rifugio, dobbiamo scendere in una valle e un altro costone ci si para dinanzi; la fatica per scalare il Kibo non è misurabile soltanto in termini di dislivello che pure raggiunge la rispettabile cifra di 4400 metri, ma anche in distanza: da Marangu all'inizio del cono terminale (e mancano ancora 9 ore alla vetta) corrono infatti quasi sessanta chilometri. Spesso incrociamo sul sentiero gli alpinisti che scendono: hanno barbe lunghe, visi bruciati dal sole e alle domande sull'esito della scalata soltanto un'esigua minoranza risponde di aver raggiunto la vetta. Quasi tutti, più che alla quota, danno la colpa della sconfitta al freddo intenso, parlano di temperature rigidissime: possibile che si debba gelare proprio qui, a cavallo dell'Equatore? Finalmente, dopo una svol¬ ta del sentiero, appare il secondo rifugio, la Peter's Hut o, come la chiamano i portatori, Horombo: siamo a 3780 metri, e la tappa di oggi ci ha richiesto oltre sette ore di cammino. Anche qui un gruppo di chalets, molto nutrito perché questo è il punto d'incontro dei gruppi che salgono e di quelli che scendono (mentre a Mandara si dorme soltanto lungo la salita e viene «saltata» al ritorno) ma il luogo è notevolmente più bello che alla prima capanna. Un ruscello d'acqua limpidissima scorre a pochi metri, oltre c'è una piccola valle cosparsa di alberi di senecio e dietro una cresta si stagliano le rosse torri dì rocoia del Mawenzi, una montagna di 5200 metri molto ostica da scalare. Sullo sfondo, ancora lontanissimo, appare il cono del Kilimanjaro con il suo grande ghiac¬ ciaio, rosa sotto i raggi l'ultimo sole. Ceniamo nella grande sala ristorante rischiarata dalle lanterne a petrolio e parliamo con quelli che tornano dalla montagna: vi sono europei, giapponesi, americani, australiani e i musi lunghi sono ben più numerosi delle facce allegre. Anche chi ha raggiunto la vetta sostiene che l'impresa è molto dura, che l'allenamento serve a ben poco, che nausee e mal di testa si sprecano: dicono così per esaltare la loro salita o per spaventarci? Da domani staremo a vedere. Al mattino tutta l'acqua delle pozze è gelata quando partiamo e il sole non è ancora comparso. Saliamo per circa un'ora lungo una valle fiorita finché incontriamo il cartello «last water»: occorre riempire qui le borracce perché per oltre un giorno non troveremo più acqua. La valle continua fiancheggiata da paretine rocciose, il Mawenzi si avvicina sempre più finché dopo altre due ore giungiamo a un colle. Siamo a 4200 metri e il cono del Kilimanjaro ci appare ora in tutta la sua maestosità, ma per raggiungerne la base dobbiamo ancora percorrere la Sella dei venti, un altopiano perfettamente pianeggiante lungo otto chilometri perennemente investito da raffiche gelide che ci costringono a indossare il «duvet». La Sella pare interminabile, poi la salita riprende e sono già le 17 (in totale abbiamo impiegato oltre otto ore per la tappa odierna) quando arriviamo all'ultima capanna, la Kibc Hut. Siamo a 4700 metri, quasi l'altezza del Monte Bianco, una massima che pochi di noi hanno mai raggiunto e gli ef¬ fetti dell'altitudine si fanno sentire subito. Il rifugio inoltre non ha la comodità di quelli precedenti, ma è una povera capanna di lamiera ondulata piena di spifferi e in cui si sta affastellati sulle cuccette. Siamo al freddo, la luce sta per calare; i portatori preparano la cena e io provo un impasto di carne in scatola e fagioli talmente pesante che non mi si muove più dallo stomaco; chi invece si lascia tentare dal tè, dalla marmellata o dalla minestra è squassato dai conati. Vedi gente che si aggira con la testa fra le mani, che cerca un posto per vomitare, che maledice il momento in cui è salita quassù, mentre i più fortunati dormono. Spogliarello al gelo perché è ora di cambiare completamente l'abbigliamento e di calzare gli scarponi, poi cerchiamo di riposare mentre il medico della spedizione, che già sta male per conto suo, è occupato a distribuire farmaci. Poche ore di sonno agitato, poi u mezzanotte arriva Fataeli a svegliarci e a portarci il tè: la percentuale di quelli che rinunciano è molto alta e soltanto una piccola pattuglia segue la guida. La luna va c viene nel cielo nuvoloso, cade qualche fiocco di neve e dobbiamo procedere alla luce delle pile che abbiamo fissato alla fronte: c'è una traccia molto evidente di sentiero ma è micidiale, ripidissimo e con il fondo scivoloso tanto che si procede con il ritmo di tre passi avanti e uno scivolone indietro. Viaggiamo sulla base dei cento passi prima di concederci una sosta, col cuore che batte impazzito, poi scendiamo a cinquanta, più in alto ancora a venti: inoltre, man mano che si sale, non solo l'aria diventa sempre più rarefatta e la fatica si accu¬ mula, ma anche il sentiero aumenta di pendenza. Dire che ci gustiamo la salita al «tetto dell'Africa» sarebbe una bugia: il terreno su cui procediamo non ha alcuna attrattiva, il cielo è una mussa di nuvolaglia grigia senza una stella. E' una scommessa continua con se stessi: «Faccio ancora cinquanta passi, poi ritorno», finché dopo sette ore si nrriva al Colle del leopardo e immediatamente dopo si toccano i 5740 metri della Gilman Top, la prima vetta. Il percorso ora diventa più pianeggiante e per toccare la vetta principale, i 5895 metri dell'Uhuru Peak, bisogna percorrere una traccia sulla cresta che contorna tutto il cratere: il dislivello è lieve, la vista stupenda all'interno del vulcano pieno di ghiaccio, in cui si dice sia sepolto Menelik, ma, rincretiniti come siamo, queste ultime due ore di salita tolgono a tutti la voglia di ammirare il panorama o di fare qualche fotografia: sogniamo soltanto di tornare a valle. Una discesa pazza lungo il canalone per raggiungere quote più respirabili, poi l'interminabile camminata con i piedi a pezzi e la gola che brucia fino a Horombo dove si arriva all'imbrunire. La sera i portatori cantano per noi: sono vecchie canzoni inglesi e tedesche tradotte in swahili e nella nuova versione acquistano una dolcezza commovente: ci dicono che, poiché abbiamo sofferto con loro, resteremo nel loro cuore. E' l'ultima immagine vera che conservo. Tutto il resto, i mercatini per turisti beceri, le prostitute che ti si rivolgono in italiano, gli americani con il casco coloniale è un mondo falso che non può lasciare ricordi. Gigi Mattana i

Persone citate: Gilman, Mandara

Luoghi citati: Africa, Tanzania