Il ritorno dello stregone di Alfredo Venturi

Il ritorno dello stregone LA ROVINOSA DITTATURA DI AMIN IN UGANDA Il ritorno dello stregone Appariscente e insieme sfuggente, è il simbolo della degenerazione del potere africano - Ha trasformato in incubo un Paese felice per risorse naturali e indole degli abitanti - Dalla cacciata degli asiatici allo scatenamento dei conflitti tribali (Dal nostro inviato speciale) Nairobi, settembre. « E' il ritorno dello stregone, la rivincita dell'irrazionale sulle frustrazioni africane », dice uno. « E' soltanto un caso tradizionale di incondizionata gestione del potere, neanche poi tipicamente africano », dice un altro. Ecco due tentativi di definizione del fenomeno Amìn. Un fenomeno sfuggente, enigmatico, mal classificabile. Che cos'è Idi Amin Dada, feldmaresciallo, presidente a vita dell'Uganda? Che cosa significa quel suo personale regno del terrore? Dovunque si vada, in Africa, prima o poi la conversazione cade su di lui, sul gigantesco sottufficiale dei fucilieri di Sua Maestà, campione di pugilato, nuotatore veloce, che con l'indipendenza del suo paese divenne prima ufficiale fino ai massimi gradi, poi capo di stato maggiore, infine presidente a vita. Dovunque lo s'incontri, l'interlocutore africano tende immancabilmente a mettere in chiaro alcuni punti. Intanto rifiuta certe altezzose prevenzioni europee sulla inevitabile africanità del fenomeno: « Ma voi non avete avuto Hitler? ». Niente da dire: noi abbiamo avuto Hitler. Poi c'è, purtroppo, la non unicità del fenomeno Amin. Vengono fuori, con assoluta regolarità, i nomi del maresciallo Jean Bedel Bokassa e di Francisco Macìas Nguema, rispettivamente presidenti della Repubblica Cen- trafricana e della Guinea equatoriale. Sono gli Amin delle altre Afriche, di quella francofona e di quella, anomala, uscita da un colonialismo che non faceva capo né a Londra né a Parigi ma, in questo caso, a Madrid. Analogia del quadro d'insieme: come nell'Uganda del feldmaresciallo, anche laggiù in Centrafrica e nella Guinea già spagnola regnano il consenso coatto, il terrore, la tortura. Sono le situazioni e i personaggi che consentono ai razzisti del Sud di usare uno sfuggente argomento con i neri in ansia d'indipendenza: « è questo che volete? ». E di scambiarsi, nei clubs per soli bianchi del Capo e del Transvaal, facili ironie sul continente inquieto: « that mess up north », q-.-ìl casino lassù al Nord. I grandi laghi Idi Amin Dada è il più appariscente di quei fenomeni degenerativi del potere africano. Perché il suo paese è appunto l'Uganda, uno splendido paese favorito dalla natura, una terra generosa ricca di acque, dal clima dolce e stimolante. In breve, un paese di grandi potenzialità agricole in questo continente affamato, per non parlare del rame e di altre ricchezze sotterranee, o del richiamo turistico di luoghi come i grandi laghi e i Monti della Luna. E' proprio questo paese felice che il feldmaresciallo ha trasfor¬ mato in un vero e proprio incubo in forma politica. Il centro del potere feroce di Amin è poco distante da quel luogo fatato dove, poco più di cent'anni fa, John Speke vide per la prima volta le acque del Lago Vittoria precipitarsi a far nascere il Nilo. E sono appunto le acque del Nilo neonato che arrossano di sangue i periodici massacri dei miliziani di Amin. E' qui che finì fra gli altri, un paio di anni fa, il corpo del ministro degli Esteri, il filosovietico Ondoga. Costui fu rimpiazzato, allora, dalla bella principessa Elizabeth Bagaya che poi sarà deposta perché sorpresa, dice Amin, a far l'amore con un diplomatico europeo nella toilette di un aeroporto parigino. Adesso il paese felice è in ginocchio: allontanati i vecchi assistenti e consiglieri e « cooperatori » israeliani e britannici, cacciati i cinquantamila asiatici, aizzate l'una contro l'altra le tribù che con tanto sforzo si era cercato, prima, di amalgamare nello Stato unitario, sparso, perfino, il sangue prezioso degli studenti, garanzia dei futuri sviluppi, Amin regge un'Uganda prostrata. E poiché il suo potere, nonostante tutto, vacilla, poiché la stessa classe militare è sempre più insofferente, poiché nei paesi confinanti i fuorusciti attendono il loro momento, ecco che il pugno di ferro si fa sempre più pesante, e coloi ro che riescono a scappare. ugandesi o stranieri, parlano di apocalittiche stragi, di coccodrilli che banchettano con i corpi degli uccisi, di carceri sovraffollate che grondano sangue e risuonano di urla. Com'è stato possibile questo? Intanto non è ancora ben chiaro come Amin, nel gennaio del 1971, abbia potuto assumere così facilmente il potere. Il presidente di allora, Milton Obote, era all'estero per impegni diplomatici, occasione classica delle congiure africane. Obote era un capo maturo e intelligente: con un insieme di rivolgimenti costituzionali aveva saputo correggere quell'assurdità giuridica che era l'Uganda appena uscita dal dominio coloniale, una Repubblica che federava cinque regni, cui presiedeva il più influente dei cinque sovrani, il kabaka del Buganda. Poi Obote aveva manifestato l'intenzione di andare oltre la chirurgia costituzionale, e di affondare il bisturi nei tessuti così reattivi della proprietà europea. E' stato questo a costargli il potere, e favorire Amin? O è stato piuttosto il desiderio israeliano di fare dell'Uganda una base di, appoggio al Sudan meridionale, in rivolta contro il regime arabo di Khartum? Il quadro non è ancora chiarito: ma è certo che, subito dopo la presa di potere dell'allora capo di stato maggiore, Londra e Gerusalemme non nascosero la loro soddisfazione, e si affrettarono al riconoscimento diplomatico di quel regime che proprio all'Inghilterra e ad Israele doveva riservare le più amare disillusioni. Così Obote si rifugiò in Tanzania, ospite dell'amico Nyerere; e in Tanzania aspetta ancora il rendiconto che allora, prima di partire per il viaggio fatale, aveva chiesto a Idi Amin su certi ammanchi di cassa: altro elemento chiave di questa ingarbugliata sceneggiatura africana. Il nuovo presidente non tardò a costruire la propria leggenda. Rozzo, incolto, ma non privo di un certo suo particolarissimo fascino, e soprattutto abile nel farsi portavoce delle idee di gelosa « africanità » largamente condivide nel continente, cominciò col rilevare l'effettivo handicap geografico del suo paese, la mancanza di uno sbocco al mare. Fu così che l'antico fuciliere di Sua Maestà divenne un fattore destabilizzante nella già inquieta regione dell'Africa orientale. Lo sbocco al mare, l'Uganda potrebbe teoricamente ottenerlo a spese del Kenya o della Tanzania: scartato, allora, il Kenya che come lui stesso aveva amici a Londra, Amin scelse la Tanzania che parlava di socialismo e aveva dato ospitalità a Milton Obote. Per realizzare il bellicoso progetto, una lunga marcia alla testa delle sue truppe fino all'Oceano Indiano, chiese armi e denaro a Londra e Israele. La risposta, abbastanza ovvia, fu quel « no » che doveva portare ad una spettacolare evoluzione della politica estera di Amin. Ecco l'uomo portato al potere da interessi « occidentali ». che rompe con Israele (arrivando fino a glorificare Hitler e la « soluzione finale»), che si allea con la Libia di Gheddafi, che spedisce a Londra decine di migliaia di asiatici, facendo così pagare alla povera Inghilterra postimperiale un salatissimo conto arretrato dell'impero, che stringe rapporti con i palestinesi, che corteggia l'Unione Sovietica. Ci sono, prima che la svolta sia consumata fino in fondo, scontri di frontiera con la Tanzania, ma poi Amin desiste, telegrafa a Julius Nyerere, presidente a Dar Es Salaam, e gli esterna una sconfinata ammirazione: « se tu fossi donna vorrei sposarti », gli dice. Bel tipaccio / messaggi di Amin riempiono le cronache, consacrano una sua fama di statista un po' folle ma tutto sommato bel tipaccio. Alla regina d'Inghilterra chiede, condizione per partecipare ad una conferenza del Commonwealth, una scorta d'onore di highlanders scozzesi con tanto di cornamuse. Offre derrate agricole alla Gran Bretagna in difficoltà di approvvigionamenti: « purché veniate a prenderle ». Al presidente Nixon impelagato nello scandalo manda un telegramma: « le auguro una pronta guarigione da quella brutta malattia del Watergate ». Per un certo periodo l'uomo è popolare, in Africa: è l'uomo che parla fuori dai denti, che sa dire all'imperialismo il fatto suo, che costringe gli ufficiali inglesi a strisciare per avvicinarlo, che riscatta verbalmente le immense frustrazioni continentali. La folla lo acclama, nelle capitali africane dóve sì tengono le periodiche riunioni dell'Oua. E lui sorride, col suo largo sorriso da peso massimo vittorioso. Si può parlare, dunque, di successi almeno psicologici in politica estera. Ma all'interno, nell'Uganda che comincia a pagare un prezzo intollerabile, la situazione è nera. La partenza degli asiatici ha disarticolato l'economia, i nuovi amici non hanno la forza trainante degli antichi. Al malumore, alle contestazioni sì risponde col terrore. Secondo lo schema consacrato dì ogni dispotismo, si tenta di rispondere alle difficoltà interne puntando l'indice alla frontiera, denunciando minacce esterne, cercando la mobilitazio¬ ne nazionalistica. L'uomo si fa pericoloso. Da Mosca arrivano armi pesanti, e la cinica leggerezza del Cremlino è pari soltanto, nell'occasione, a quella del Dipartimento di Stato che rifornisce i fascismi latinoamericani. Il radicale mutamento di rotta trasferisce dalla Tanzania al Kenya l'ostilità aggressiva di Amin. Il feldmaresciallo studia antiche carte coloniali, crede di scoprire che lo sbocco al mare gli spetta proprio attraverso il territorio kenyota. Un bel salto, dai tempi non lontani in cui Amin faceva massacrare i Luo, tanto per fare una non richiesta cortesia al kikuyu Kenyatta, che con quel popolo di confine aveva problemi politici. L'incursione israeliana su Entebbe, col più o meno tacito appoggio del Kenya, arriva proprio nel pieno di questa stagione di crisi fra i due paesi. Per la prima volta si aggiunge, ai problemi interni di Amin, il peso di un gravissimo smacco internazionale. La sua credibilità va a rotoli. Il regime di Rampala sembra condannato. Ma il feldmaresciallo riesce ad accettare un'indigesta intesa con Nairobi: ingoia il rospo perché ha da far pulizia in casa. E ancora una volta è tempo di stragi: le acque del Nilo ricevono i corpi di nuove vittime, gente della piccola borghesia commerciale, studenti dell'università di Makerere, un tempo il gioiello della cultura anglo-africana, militari ormai in aperto contrasto col loro imprevedibile comandante. Quest'uomo, è chiaro, non potrà reggersi indefinitamente in sella. Ma intanto continua nel suo sanguinoso esercizio del governo, e quasi ad accreditare in chiave moderna e monoteistica la tesi del « ritorno dello stregone » insiste nell'individuare molto in alto la fonte del suo potere: « io parlo con Dio », dice: « Dio è dalla mia parte ». Alfredo Venturi Idi Amin Dada