Alla maratona del film

Alla maratona del film La Biennale-cinema "chiude,, oggi i lavori Alla maratona del film Presentato il " Giardino delle delizie " di Silvano Agosti, co-autore di " Matti da slegare" - Una personale dedicata al regista portoghese Manuel De Oliveira (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 7 settembre. Con unii « personale » del regista Manuel de Oliveira, che rappresenta, si può dire, da sé solo 10 speechio del einema portoghese, la Uiennale Cinema ha lanciato, sul concludersi, un razzo blasfemo col film italiano Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti, coautore di Matti da slegare e autore del Giardino delle delizie, presentato a Pesaro. Produzione indipendente, realizzata in cooperativa, fuori delle servitù del cinema industriale, la pellicola stende un'allegoria di color giallo avorio che intende testimoniare la totale identità del cattolicesimo con l'ideologia borghese fondata sulle caratteristiche comuni del moralismo, autoritarismo, repressione sessuale, terrore della felicità, e quindi, nientemeno, la fine del cattolicesimo stesso in quanto ideologia di morte. Per sostenere l'assunto, Agosti si è servito di una situazione che in partenza, ma in partenza soltanto, che poi gli manca una corrispondente genialità di sviluppi, ha un qualche sapore bunueliano; un gruppo di persone è impedito a muoversi da un cerchio magico che le rinchiude. Sono una delegazione di dodici cattolici, dirigenti e dipendenti della clinica « Mater Dei », che da una provincia del Nord si reca in Vaticano per una udienza col Santo Padre. Artefici dell'incontro col Pontefice sono tre figure di cattolici tra loro assai poco omogenei: un gesuita orientato politicamente verso il marxismo, un ammalizzito notabile democristiano di provincia, un dirigente dell'Azione Cattolica locale, che pretende di rimanere al di sopra delle parti. Altri personaggi rappresentanti altre sfumature e tre suore completano la comitiva. Esaurite le formalità d'ingresso (controllo dei documenti e dei doni), il gruppo è fatto entrare nell'ascensore vaticano, chiaro e lindo come un salottino settecentesco, che a farvcla breve incomincia, o almeno si suppone che cominci, a salire in assoluto silenzio rotto da giaculatorie: fatto è che non arriva e non s'arresta mai. Il gruppo cosi imprigionato passa per tutta la gradazione che è tra i limiti d'una tollerabile pazienza fino all'angoscia e al terrore folle: urla, tempesta di colpi le pareti della cabina, cerca di sforzarne le ermetiche chiusure: ma tutto inutilmente. Allora il gruppo inferocisce contro se stesso: cadono le maschere del perbenismo, svanisce la concordia formale e interclassista d'apertura, i peggiori istinti individuali vengono a galla, e il tutto si risolve in un isterico massacro collettivo che sa di antiche Inquisizioni e moderne « cacce alle streghe ». Irriconoscibile da quello che era, ridotto a un mucchio di carni sanguinolente e agonizzanti che hanno sfiorato tentazioni cannibalesche, la delegazione è ormai pronta per arrivare: si apre finalmente l'usciolino e ne entra una figura biancovestita che benedice « in articulo mortis » una delle suore che sta per partorire. Subito dopo l'ascensore giunge a destinazione regolarmente, uscendone il gruppo quale avevamo visto in principio: tutto e stato un sogno, ma un sogno chiaroveggente sulle divisioni e gli odi che lacerano il cattolicesimo. Agosti ha indubbie qualità di regista e la progressione drammatica all'interno di quell'ascensore trascinato in una folle corsa all'infinito, gli è spettacolarmente riuscita. Ma perché tutto ciò dovrebbe suonare inappellabile condanna dell'ideologia cattolica? La allegoria ha un che di appiccicato, oltreché di stolido; talché colpisce per i suoi effetti granguignoleschi ma non persuade altro che come sfogo di collera personale. Il razzo blasfemo fumiga, scoppietta, ma non esplode come avrebbe dovuto, non sapendo render conto di sé alle ragioni pacate del buon senso. Volonterosi gli attori che partecipano a questo spettacolo di autodistruzione ideologica. Domani, con un film ungherese di Pai Gabor, uno polacco di Janusz Zaorski, e il proseguimento della « personale » di De Oliveira, la Biennale Cinema '76 conclude o per meglio dire sospende i suoi lavori. Innegabile 11 progresso della nuova edizione sulla precedente per quel che riguarda una maggior presa di coscienza circa la propria identità. Per la quantità di cinema macinato (pratica e teoria), la manifestazione è stata grandiosa, e tale da riuscire un po' sfuggente nei contorni. Iniziative monografiche come quelle sulla Spagna, l'avvincente retrospettiva del cinema 1936, cicli come quelli sul sovietico Sciukscin, su Godard, sulla Cina vista da Ivens, sui film dello studio Balazs di Budapest e altri ancora; convegni, dibattiti e seminari in tutte le direzioni del cinema impegnato e nelle sue altiiicnzc con altri mezzi di comunicazione, costituiscono altrettante benemerenze culturali che hanno per oltre quindici giorni trasformato Venezia in una sorta di Ateneo cinematografico e noi recensori in tanti seminaristi con fasce di carte sotto il braccio (incredibile la quantità di pubblicazioni che questa rassegna ha messo fuori, una vera biblioteca). , Il disegno di risultare l'anti! Cannes per eccellenza è perfetj tamcnle riuscito al presidente Ripa j di Meana e al direttore Giacomo ì Gambetti, coi rischi connessi di j dar luogo a una manifestazione un po' troppo specialistica, per addetti ai lavori, sequestrata dagli interessi dal grande pubblico ancora affezionato al cinema come forma di diletto. Notevole, se non travolgente, è stata l'affluenza degli spettatori al Lido e nei cinema di Venezia e di terrafer- mu; ma ancora inferiore al desiderato il senso dell'animazione e l'interesse e il coinvolgimento della critica straniera per la quale evidentemente la mostra valida è ancora quella del vecchio corso. Qualche nco dell'organizzazione (mutamenti di programma e d'orario) si spiega con la quantità del materiale che ha finito col fare ingorgo. Largamente passibile di miglioramento ci è poi sembralo anche quest'anno il settore « proposte di nuovi film » che anche in quest'edizione non ha tenuto sufficientemente conto né dell'inedito né della qualità artistica delle opere. Troppo ha potuto anche qui il criterio dello specialistico (sociologia ed etnografìa) ; troppi da parte italiana i connubi televisivi. Circa le novità vere e proprie di rilievo, l'Italia col film di Ferreri, la Francia con quello di Tavcrnier (// giudice e l'assassino) non ci pare che si siano buttate via. Il meglio (ma in misura inferiore allo scorso anno) è venuto dal cinema americano, con Ode a Billy loe di Max Bear, col discusso Loving Molly di Lumet, con Smile di Ritchie e col bislacco thriller Murder by death di Robert Moore. Sono, questi che abbiamo citati, tra i pochi film che appariranno certamente nei circuiti normali. Ma quello che importa è che nella pleiade delle rassegne cinematografiche Venezia finisca col trovare una sua propria lisonomia: un po' appartata e corrucciata, se vogliamo, ma sua propria. Anche se dall'edizione '76 si sia tutti usciti un po' frastornati, e non sia stato possibile a nessuno vedere e ascoltare tutto quello che c'era da ascoltare e da vedere, non sarebbe in buona fede chi volesse negare alla Biennale Cinema d'aver saputo imboccare una strada forse un po' disamena ma che certamente la distingue dalle altre manifestazioni per il suo carattere densamente culturale e non ristretto nei limiti cronologici di una bisbocciata cinematografica. Al concetto non esecrando di sporadico divertimento si e voluto sostituire quello sociologicamente più proficuo di un « laboratorio » di continuata ricerca e riflessione, al quale si va e si viene come piace meglio. Leo Pestelli

Luoghi citati: Budapest, Cina, Francia, Italia, Meana, Pesaro, Venezia