Ferreri e la famiglia a pezzi

Ferreri e la famiglia a pezzi "L'ultima donna" alla Biennale di Venezia Ferreri e la famiglia a pezzi (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 3 settembre. L'intera attenzione è stata occupata dal nuovo film di Marco Ferreri, « L'ultima donna », che la Biennale cinema ha presentato nella versione italiana davanti a una platea gremita di pubblico. Dissacrando questo, dissacrando quello, il più provocatorio e paradossalmente cinico dei nostri registi, e giunto alla dissacrazione radicale, quella della cellula famigliare, della coppia. La nostra società qual è ora (è un articolo di fede per Ferreri) è finita; e non le resta che o di rinnovarsi o di perire. Se già in « Dillinger è morto » e nella « Cagna » si assisteva alla corrosione de) rapporto tra i sessi, nell'« Ultima donna » tale rapporto esplode, ossia finisce del tutto. Ma prima di parlare del bruciante epilogo che segna la volontaria catastrofe del sesso maschile (scena agghiacciante che prenderà anche troppa importanza agli occhi di certo pubblico), vediamo in che maniera sorniona, quasi d'una commedia erotica con frange comiche, il regista sia giunto a un risultato così devastante. In una innominata città industriale, Gerard, un ingegnere in sciopero per motivi tecnici, abborda la bella Valérie, una giovane puericultrice in procinto di partire per la Tunisia con un suo azzimato e frollo spasimante. In cambio Gerard le offre di passare le vacanze nel suo appartamento; e la ragazza prontamente accetta. L'ingegnere vive separato dalla moglie femminista che gli ha lasciato il bambino Pierrot, cui egli prodiga cure di mamma e di balia. Valérie s'inserisce in questa famiglia zoppa (cui la moglie s'affaccia di tanto in tanto) e per un po' la integra molto bene, alternando in tutta libertà i giochi erotici collimante e le cure al pupo. Ripristinata nei suoi poli maschio-femmina, la famiglia funziona, e spesso si ride di quell'interno dove il maschio, cosi maschio come appare da inequivocabili segni, appare in figura di mamma e Valérie di semimamma, tenuta un po' indietro dalla gelosia del balio. E la nuova intrinsichezza coll'ex moglie di Gerard e un suo amico rende anche più prosperoso quel nucleo familiare improvvisato. Ma ben presto il rapporto si deteriora. Il primo urto viene da una cesta che Valérie ha portato in casa di Gerard e che contiene le sue cose personali. Padrone in casa sua, e padrone, secondo lui, anche di Valérie, Gerard sforza la cesta per guardarvi dentro; al che lei si sei.tc offesa nelle sue prerogative di donna libera; e cominciano rinfacci e litigi. D'un tratto ella rifiuta la parte di compagna-schiava, d'ingrediente utile in seno alla famiglia, cui Gerard, nel suo candore di maschio, sembra volerla sottomettere. « L'ultima donna » non è un manifesto di misoginia (o lo è nella misura in cui Io sono tutti i film di Ferreri), e non è neanche una polemica, ma se mai una risposta al femminismo. Come la donna, dopo tanti secoli di trascuranza, si è sollevata dalla condizione di donna-oggetto, così l'uomo, dopo tanti secoli di predominio, si sente schiacciato, annullato nella sua condizione di uomofallo. Ciò vuol dire che la coppia, anche ristabilita in funzione di ripiego, è morta nella sua cellula motrice; e che a mali estremi occorrono estremi rimedi. Ferreri, che più che i processi psicologici, ama le soluzioni di forza, avvedutamente aveva già fatto circolare nel film un coltello elettrico, buono a tagliare filoni di pane, salami e altri oggetti bislunghi. Già moralmente castrato dalle insolenze di Valérie (che sono il portato d'una società nuova che vuol sorgere sulla vecchia) , Gerard, tracannata una bottiglia di vino per darsi coraggio, compie risolutamente su se stesso (il cui eretismo è pressoché permanente) il sacrificio di quella parte per cui tanto meritò Origene, tratto da un'errata interpretazione del Vangelo. Coll'urlo di dolore che segue l'autoevirazione si conclude il film, e vi si sente rotolare, la tesi di Ferreri, l'istituzione famigliare andata a pezzi. Il film, come altri di Ferreri, ma di un pessimismo così cresciuto, è una truce metafora della vita moderna, tenuta in una tavolozza cupa di colori metallizzati, retta da una fattura neanche troppo raffinata (importa troppo la dimostrazione della tesi) e giocata tra pochi personaggi in un ambiente quasi spopolato quanto ricco di emblemi tecnologici. A caldo, l'opera è imbarazzante o repugnante in troppe cose, schiacciata com'è nella sfera più bassa dell'uomo: un'ostinata priapea, senza luce, parrebbe, d'intelligenza umana. Ma poi, ripensandoci a freddo, come avviene spesso nei film di Ferreri, se ne deve ammirare la coerenza tematica, l'ardore luciferino, la sapiente dosatura degli effetti e il taglio della trovata a cui porta, piramidalmente, l'intero film. Mentre il film non elargisce più che una particina a Michel Piccoli, e così fa con Renato Salvatori e Giuliana Calandra, esso offre il più largo sfogo a un Gerard Depardieu quasi sempre adamiticamente vestito. Scelto a cagione della sua magnificenza carnale, si rivela sgradevolmente bravo e bene aderente all'assunto provocatorio, buffonesco e tetro del lavoro. Gli dà la secca replica della donna d'oggi, defilata dalla superiorità maschile, la graziosa Ornella Muti. Immagini di Tovoli, scenografie di De Broin, costumi di Magrini, musiche di Meniconi. « L'ultima donna », amichevolmente applaudito e moderatamente vivisezionato nella successiva conferenza-stampa dove l'autore è sceso con intenti bellicosi, si è trovato molto bene nel contesto delle « proposte », perché è di quei film piccosamente scandalosi ed eretici che vanificando la censura (la quale non saprebbe dove mettere le mani) fanno e faranno discutere a lungo. 1. p.

Luoghi citati: Tunisia, Venezia