Un Godard per il video

Un Godard per il video Alla Biennale di Venezia Un Godard per il video (Dal nostro invialo speciale) Venezia, 1 settembre. Mentre In cornice si sta movimentando col moltiplicarsi di dibattiti e interventi di autori, saggisti e critici, la cronaca filmica deve registrare una giornata a sghimbescio, con programma terremotato senza preavviso. Colpa della dogana che ha trattenuto i tre annunciati film messicani di Jorge Fons, in sostituzione dei quali si è avuta un'altra puntata della serie televisiva di Jean Lue Godard e AnneMarie Miéville, intitolata Numero deux, che articolata sulla metafora dell'officina c della campagna, mette in rapporto diversi tipi di produzione di immagini partendo dalla vita quotidiana. Tipico saggio di film-non-film, ossia di cinema esoterico scavante nel cervello col trapano della verbosità (secondo il gusto dell'ultimo Godard), dischiuso all'intelligenza di pochissimi anche perché non aiutato da didascalie italiane, ci basterà d'averlo segnalato, come singolare documento della tormentata e tormentosa evoluzione estetica d'un celebre regista. Francese anche l'altro surrogato, recuperato dalla quarantena in cui era stato messo in seguito alla «fuga d'ammoniaca» nella sala del Palazzo del cinema: Maladie mortelle del trenta-' cinquenne documentarista e scrittore belga Fran?ois Weyergans: un film dove l'eleganza formale (belle le immagini di Ricardo Aronovich) si accompagna a un contenuto sibillino, formando il tutto, a nostro avviso, un documento di pretensiosa nullaggine. A Parigi, ai nostri giorni, un giovane gravemente ammalato di nervi ci fa assistere alla sua lunga agonia. Chi sia e perché si sia ridotto così, non è detto: il film è avarissimo d'informazioni obiettive. Si può arguire che sia uno scrittore o traduttore rientrato e che viva nell'appartamento messogli a disposizione da un amico, un pittore allucinante. Il personaggio, quando non passeggia barcollando per le strade, vive carponi o rannicchiato come un animale ferito tra lettuccio e sofà: geme, sussulta, si consuma visibilmente. Due ragazze, entrambe bellissime, l'una bionda e l'altra bruna, si prendono saltuariamente cura di lui, a turno: lui le strizza, ci piange addosso e non fa altro. Una terza donna, dal linguaggio salace, appartenente questa al ricordo, si frammischia alle altre nei suoi torpori e dormiveglia: del resto estremamente labile in tutto il nontesto del film, che volutamente non muove ma fa buca come il personaggio stesso, è il confine tra il reale e l'immaginario, tra il conscio e l'inconscio. La diagnosi non pare dubbio che sia la pena esistenziale, sofferta all'ultimo stadio, alla quale sembrano portare qualche sollievo positivo, non già le donne visitatrici, ma alcuni giocattolini meccanici, caricati a molla, con cui il malato si gingilla a fior di pavimento, in un ritorno all'infanzia. Questa vita, se vita si può chiamare?, è tutta una preparazione alla morte, che a un certo punto, per mere ragioni di metraggio, giunge inevitabile, propiziata da una manciata di barbiturici. Abbiamo colto una battuta: «La morte non uccide nessuno; è la vita che uccide». In conformità di tale principio, l'anonimo protagonista si libera dal laccio, lasciando le sue belle amiche moderatamente stupite e Io spettatore affaticato e perplesso dopo tanto gratuito agitarsi nel nulla. Sulla capziosità, letteraria sino al fastidio, di Maladie mortelle non si posano avere incertezze, com'è altrettanto certo che una qualche coerenza a questa lunga variazione sulla corda dell'angoscia, viene dalla maschera scavata e pallida, da Seneca svenato, del patologico eroe. Così la maggior soddisfazione della scombinata giornata ci è ancora venuta da tre nuove puntate del chilometrico documentario sulla Cina di Joris Ivens: Come Yukong spostò le montagne: tre profonde esplorazion sociologiche ambientali scevre | d'ogni estetismo; «Un villaggio di pescatori» (un villaggio dello Shantung, provincia natale di Confucio); «Storia di un calcio al pallone», una piccola storia accaduta in un liceo di Pechino che si dilata a indagine filosofica sul tema della responsabilità, e «Allenamento al circo di Pechino», vivido saggio sull'allenamento quotidiano del circo della capitale che si conclude con una pittoresca esibizione degli acrobati: quindici minuti di alto spettacolo. Leo Pestelli

Persone citate: Godard, Jean Lue Godard, Jorge Fons, Joris Ivens, Leo Pestelli, Ricardo Aronovich, Seneca, Weyergans

Luoghi citati: Cina, Parigi, Pechino, Venezia