La neo-mafia elimina i vecchi boss in carcere

La neo-mafia elimina i vecchi boss in carcere Tripodo assassinato come La Barbera La neo-mafia elimina i vecchi boss in carcere L'uccisione del capo-cosca dell'Aspromonte (detenuto a Poggioreale) sarebbe stata decisa due mesi fa da un "vertice" mafioso - Forse il delitto provocato da una spietata lotta di potere fra i vari gruppi della malavita organizzata in Calabria (Nostro servizio particolare) Napoli, 27 agosto. La condanna a morte di Domenico Tripodo, detto «Mico», 53 anni, capo della mafia calabrese più nota come 'ndrangheta, eseguita ieri l'altro mattina da due sicari nel carcere di Poggioreale, era stata pronunciata due mesi fa nel corso di un «summit» della malavita organizzata. Questa è la prima conclusione alla quale sono giunte stasera le indagini. Nessuno degli investigatori è disposto a rivelare il motivo dell'esecuzione ma le «voci» correnti sono due: 1) che «don Mico» era stanco, non sopportava più il carcere, dava segni di cedimento e, da un momento all'altro, poteva diventare, anche involontariamente, pericoloso; 2) che la sua prolungata detenzione, lasciando un larghissimo vuoto di potere ai vertici dell'organizzazione mafiosa, abbia scatenato appetiti ed ambizioni, specie fra le leve più giovani ed irrequiete. Ma, a quanto sembra, è proprio questa seconda ipotesi che riscuote il maggior credito nell'ambiente degli investigatori. «Troppe analogie con l'uccisione a coltellate del "boss" Angelo La Barbera avvenuta lo scorso ottobre a Perugia — ha dichiarato un funzionario di polizia —. Anche La Barbera era in carcere, anche lui era riuscito a farsi ricoverare in infermeria, anche i suoi assassini, apparentemente, avevano agito per un motivo futile, estraneo alle attività mafiose». L'inchiesta, oggi, si è appuntata soprattutto sulla inquietante facilità con cui entrano, a Poggioreale, armi di ogni genere, compresi i due pugnali a serramanico, nuovi e affilati, usati dai due assassini di Tripodo, Salvatore Esposito, 26 anni, da Marigliano (Napoli) e Agrippino Effice, ventitreenne, che — a quanto risulta — hanno sorpreso il capomafia nel sonno, nella sua cella (la n. 3) colpendolo al volto, al cuore, alla schiena e alla gola con 14 coltellate. Durante il 1974 e il 1975, in seguito ai ripetuti ferimenti avvenuti nella affollatissima prigione di Napoli (ospita duemila detenuti anziché 1300, al punto che vi sono celle con quindici reclusi), furono compiute diverse perquisizioni che portarono al rinvenimento di coltelli e di seghetti: l'indagine accertò inoltre che alcuni agenti di custodia vendevano armi ai reclusi. Tuttavia rimane l'enigma di questo nuovo delitto negli alti «vertici» della malavita organizzata: Domenico Tripodo è il quinto capomafia — dopo quelli calabresi di Vibo Valentia e Paola, e di Partinico e Terrasini, in Sicilia — che viene ucciso misteriosamente dall'inizio dell'anno. Gli inquirenti sono convinti che si sia trattato di una «esecuzione», preparata minuziosamente con largo impiego di denaro f«Altrimenti — ha detto uno degli investigatori — come si spiega che Effice, il quale doveva tornare presto libero, si sia accollato un'accusa di omicidio volontario?»). Cinquantatreenne, nativo di Sambatello (Reggio Calabria), ricchissimo e con un passato così tempestoso che un rapporto di polizia afferma che «la sua ragguardevole posizione è frutto di sistemi di mafia da lui messi in atto», Domenico Tripodo, era indicato come un «capobastone». Secondo la simbologia mafiosa egli comandava i quadri subalterni (come il «contabile», il «mastro di giornata», il «camorrista di sgarro», il «puntatolo», il «picciotto») con ogni potere decisionale nell'ambito delle sue competenze di circoscrizione, mantenendo il collegamento con altri capi di cosche mafiose. Processato cinque volte per omicidio, e sempre assolto, nel 1955 era stato confinato ad Ustica. Non vi era rimasto molto: fuggito dall'isola aveva fatto perdere le proprie tracce per una decina d'anni finché nel 1964, arrestato a Perugia, s'era visto infliggere una condanna a sei anni per tentato omicidio. Tornato libero nel 1970 e inviato al soggiorno obbligato prima a Lodi e poi a Fondi (Latina), si era inserito, con la sua organizzazione mafiosa, nelle attività dei mercati ortofrutticoli e dell'industria edilizia tanto che un rapporto all'autorià giudiziaria affermava che «don Mico», «facendo valere la sua personalità di mafioso, spadroneggia non solo nella zona di Latina ma anche nei comuni vicini». Da quel momento, consacrato «capobastone» per i suoi sempre più stretti legami con le cosche calabresi, gli venne praticamente assicurata l'impunità. Assegnato di nuovo al soggiorno obbligatorio nel giugno 1971, riuscì a fuggire; catturato a Torino nel settembre 1972 (dove viveva sotto il falso nome di Domenico Martino, girava in «Alfa 2000» ed era sempre scortato da due guardie del corpo) disse sprezzante agli agenti: «Questa è una chiassata, non avete prove contro di me, non ne avrete mai». Condotto all'isola dell'Asinara, nel novembre 1972, ottenne il trasferimento in un ospedale del Lazio ma, appena messo piede sul continente, scomparve. Negli ultimi anni, con la sua cosca, organizzò i rapimenti di Paul Getty jr., del piccolo Daniele Alemagna, di Franco Cribari e di Francesco Cali. Il passo falso che lo portò al carcere di Poggioreale fu un vasto traffico di denaro falso, compiuto da un capo all'altro dell'Italia mediante carri funebri e Tripodo venne arrestato sul finire del febbraio 1975 a Carinola di Ca¬ serta. «Anche da Poggioreale doveva fuggire — dicono adesso gli inquirenti —. Il primo passo per l'evasione era, come quasi sempre, il ricovero in infermeria». All'improvviso, però, l'aiuto dell'«Unione delle cosche» gli venne a mancare: si sa che, dal carcere, Tripodo continuava a mantenere i contatti con la Calabria ma ai suoi appelli nessuno più rispondeva. Forse la verità è che il «capobastone» era stato detronizzato: gli investigatori pensano che, nella sua ombra, sia cresciuto adagio adagio un aspirante al potere che sarebbe riuscito nell'opera in cui Tripodo aveva fallito clamorosamente, cioè l'unificazione delle tre più potenti cosche calabresi: la sua, quella della co- sta ionica capeggiata da don I Antonio Macrì e quella della ' costa tirrenica, che aveva per capo don Filippo Mirta. Oggi il magistrato inquirente ha interrogato i due «killers» che hanno ucciso Tripodo ma non si sa che cosa abbiano detto, pare abbiano parlato di vendetta. L'autopsia ha accertato che, delle quattordici pugnalate, cinque erano mortali, una aveva spaccato il cuore e un'altra trafitto i polmoni. Nella cella del capomafia sono stati rinvenuti documenti definiti dal giudice « molto importanti » e dai quali risulterebbero i contatti in carcere tra Tripodo ed esponenti delle cosche calabresi. Stasera sono giunti a Napoli i parenti di Tripodo, la moglie Grazia Praticò, il figlio Venanzio e due fratelli: domani riporte- ranno la salma in Calabria. a. 1.