I chimici sulla difensiva di Vittorio Gorresio

I chimici sulla difensiva DOPO SEVESO INQUIETUDINE ANCHE IN SVIZZERA I chimici sulla difensiva Dapprima, nella sciagurata storia dell'Icmesa, ci si scaricò la coscienza parlando di errori italiani - Poi i giornali svizzeri cominciarono a riconoscere le responsabilità c il cinismo dei colossi industriali - Le ragioni dell'affarismo e quelle della scienza (Dal nostro inviato speciale) Zurigo, agosto. Il messaggio di solidarietà inviato al governo italiano dal presidente della Confederazione elvetica Rudolf Gnaegi — per offrire la collaborazione svizzera all'opera di risanamento di Seveso e dintorni — è così bello che la prima tentazione sarebbe di pubblicarlo integralmente a edificazione di quanti credono alla schiettezza delle amicizie internazionali, intergovernative, multinazionali, polieconomìche e plurindustriali. Ma forse può bastare qualche stralcio: «Dopo la sciagura che ha colpito gli abitanti di Sereso, la situazione in questa parte dell'Italia così vicina alla Svizzera, con l'intrecciarsi al di sopra della frontiera di tanti vincoli familiari, locali e regionali, ha scritto Gnaegi, per esempio, non può lasciarci indifferenti. Desidero quindi esprimere la più viva simpatia del Consiglio federale e del popolo svizzero all'Italia e, segnatamente, ai vostri compatrioti che hanno perduto il focolare, e a quanti, in seguito alle conseguenze imprevedibili dell'incidente, hanno visto scombussolata la loro vita quotidiana...». Il messaggio continua su questo tono affettuosamente privato, che del resto è di norma nelle pubbliche relazioni fra le autorità ed i cittadini svizzeri, ed a me sembra che esso tocchi il culmine della convincente partecipazione là dove afferma: «Io sono persuaso che i miei connazionali sarebbero felici di mettere a disposizione le proposte di loro competenza che potessero essere richieste per determinare i campi in cui noi potremmo dare il nostro contributo...». E' il riferimento alla felicità degli svizzeri che mi colpisce: felicità, felicità, quante allusioni si compendiano nel tuo nome. Nel caso attuale dell'Icmesa-Givaudan-Hoffmann La Roche, le allusioni sono da intendere ad una sorta di complesso di colpa e ad una specie di paura che la sciagura di Seveso ha determinato in una parte — la più qualificata — dell'opinione svizzera. Da principio, si tendeva a presentare le cose mantenendo da esse una certa distanza, come se l'Icmesa fosse la sola coinvolta nell'affare. Il nome Givaudan non appariva che stentatamente, l'accento era posto sulla separazione delle gestioni fra Ginevra e Seveso, e le sole domande che parevano meritare risposta erano quelle relative alle misure di sicurezza: erano state, o no, rispettate dagli italiani? Lo stesso Fritz Moeri, progettista nel 1970 del reattore lemesa per la produzione del triclorofenolo, dichiarava che la sua macchina non poteva avere creato Tcdd, a meno di madornali e poco probabili errori. A suo giudizio, quindi, o l'impianto era stato manomesso, oppure nel reattore erano stati introdotti preparati chimici di altra natura, non destinati alla produzione dì triclorofenolo. Così il sospetto era diffuso, a carico degli italiani, e la coscienza svizzera ne ebbe sollievo. Ma era un povero diversivo, che non ha retto a lungo. «Certo, non è un momento in cui possiamo pretendere di avere buona stampa presso di voi», mi ha detto un clinico che consultavo su tutt'altre questioni ma che di propria iniziativa si era sentito in obbligo di introdurre nel discorso la Givaudan, come per mettere le mani avanti e dissociarsi. E in un'altra occasione, un altro personaggio, anche lui per suo conto, ha voluto accennare allo stesso argomento, quasi per sgravarsene. Stavamo parlando di un colluttorio disinfettante, e con un sorriso tirato il mio interlocutore se ne è uscito: « E' uno dei buoni prodotti della chimica svizzera, che per certi versi ha invece cattiva fama». Smascherata Ormai non solo la Givaudan, ma anche la gigantesca Hoffmann-La Roche era venuta allo scoperto, praticamente smascherata. Il presidente del colosso di Basilea, Adolf W. Jann. si faceva garante del risarcimento dei danni. Sarà tutto pagato, fino all'ultimo soldo, come si deve. Ciononostante, il 14 agosto la Neue Zuercher Zeitung pubblicava un grande articolo di misurato rimprovero domandando se lo slancio umano, il sentimento di compassione, di solidarietà, non avrebbero potuto essere molto più visibili, più palpabili, tanto da parte della Givaudan quanto da parte della Hoffmann-La Roche: «Il presidente del colosso chimico di Basilea avrebbe dovuto recarsi sulla terra bruciata di Seveso». E il Journal de Genève del 18 faceva eco: «Diciamolo francamente: fin dal principio anche noi ci siamo posti lo stesso problema. Ma il viaggio sarebbe stato possibile, o sarebbe stato mal visto da quelle popolazioni? Non si può sapere». La "rivolta" C'è in ogni modo chi si rende conto che l'indennizzo, in sé, può anche risultare non troppo meritorio, perché ovviamente dovuto, e perciò si preoccupa di fronteggiare con le armi della persuasione la pericolosa rivolta di opinione che in Italia — ma anche in Svizzera — sta serpeggiando contro ì giganti della produzione scientifico-industriale: «La vera dimensione di questo dramma — si legge sul Corriere del Ticino del 19 agosto — è nell'immagine di cinismo che dirigenti industriali lasciano trapelare quando mettono gli interessi della produzione al di sopra di tutto, finalizzando a questo scopo anche la ricerca scientifica, che diventerebbe così dominio esclusivo di chi l'ha prodotta, e ha i mezzi per eventualmente sfuggire anche al controllo pubblico sull'uso che se ne fa». Sono segnali d'allarme preoccupanti, questi impensabili attacchi di una stampa, generalmente moderata, contro le grandi imprese che sono tanta parte della sostanza e dell'orgoglio della Svizzera. L'imperturbabile presidente Adolf W. Jann sembra costretto alla difensiva, una condizione nella quale non avrebbe probabilmente mai creduto di doversi trovare: « Bisogna purtroppo mettere in conto i pericoli di una moderna azienda chimica. E la chimica ha salvato finora milioni di vite umane». Quanti milioni, presidente? Il calcolo è difficile, ma in un opuscolo che a Basilea è gentilmente offerto ai visitatori della sede La Roche, si procede per via di suggestive indicazioni. Vi leggo per esempio le percentuali di mortalità che il progresso scientifico della chimica farmaceutica è riuscito a ridurre, e così imparo che su 100 mila partorienti in Inghilterra ne morivano cinquecento nel 1860, e ne muoiono solo trenta oggi, su mille bambini svizzeri al di sotto di un anno ne morivano 134 nel 1900 e ne muoiono 13 oggi, su 14 francesi colpiti da polmonite ne morivano quattro prima della scoperta degli antibiotici e ne muore uno oggi. Trovo nella conclusione che il ribasso dell'indice di mortalità dal 1937 in poi negli Stati Uniti ha permesso un risparmio di nove miliardi di dollari all'anno, pari all'uno per cento delle entrate nazionali. Non c'è dubbio che la Roche ha uno « stile » di informazione assolutamente svizzero, se si guarda e si valuta questo finale sul buon profitto economico connesso al ribasso dell'indice di mortalità. Si comincia a pensare, tuttavia, anche in Svizzera, che alcuni grandi managers non hanno ancora capito che le loro qualità di gestori, il loro dinamismo in seno alle imprese non possono andare disgiunti dal contesto umano, politico, psicologico che le circonda. « Non è per nulla sano — ha dovuto riconoscere in questi giorni il Journal de Genève — che una tensione, una diffidenza, una reciproca allergia si stabiliscano tra il mondo degli affari e l'opinione pubblica ». Sembra un riconoscimento, una concessione importante all'opinione pubblica, vale a dire ai diritti degli individui cittadini: ma non è vero, non di altro si tratta che di una appassionata difesa del mondo degli affari, il quale deve stare in guardia contro i pericoli delle trappole e dei tranelli che gli tende, insidiosa e demagogica, la pubblica opinione. Sono pericoli già così gravi che anche in America le grandissime imprese, le più prestigiose multinazionali, hanno capito che « è nel loro interesse diffondere di sé una favorevole immagine tra gli uomini della strada. Questo senso delle pubbliche relazioni probabilmente non va immune da un pronunciato istinto demagogico: comunque è un fatto, una lezione da imparare ». Un difensore Purtroppo, è scritto ancora sul quotidiano di Ginevra a firma di un rattristato editorialista, Jacques-Simon Eggly, la gente ostile per principio alle multinazionali, alle grandi imprese e all'industria in generale non si lascia convincere facilmente: « Noi vediamo benissimo che Seveso è un'occasione di sogno per gli spregiatori dell'economia capitalista e per jauanti sono angosciati dal mondo industriale. Bisogna denunciare — ammonisce Eggly — lo sfruttamento che di questo incidente e della sofferenza umana si fa a vantaggio di una ideologia ». A riscontro di tale ignobile sfruttamento dì un incidente e della connessa sofferenza umana, è più giusto avvertire che « la sicurezza assoluta nel dominio dell'industria non esiste »: rischi ci saranno sempre, come del resto « continuerà ad esserci, sempre, il rischio di catastrofi naturali », e sarebbe assurdo oltre che iniquo pretendere il diritto a una sicurezza assoluta: « Al limite, sarebbe una forma dì morte collettiva ». Forse non riesce troppo chiaro questo limite di equivalenza tra la sicurezza assoluta e la morte collettiva; in compenso, però, mi sembra affascinante l'equiparazione tra i rischi della chimica industriale e quelli delle catastrofi naturali (terremoti? eruzioni vulcaniche? alluvioni? siccità? glaciazioni?). In conclusione, d'altra parte, mi pare giusto dare conto di un severo rimprovero che in Svizzera è mosso contro gli Stati Uniti, colpevoli e responsabili di avere preso un dirizzone infausto: « Negli Usa esistono delle business schools, dove quasi non si parla più di business, ma soprattutto di problemi sociali, ecologici, politici, magari razziali. E' un paradosso che arriva all'assurdo: noi sappiamo benissimo che non bisogna distrarre troppo l'economia dalla sua funzione primaria, prioritaria, che è la ricerca del profitto ». Non è possibile accusare J.S. Eggly dì scarsa chiarezza, e mi domando in quale altro Paese del mondo si potrebbe parlare e scrivere con tanta precisione della necessità che il profitto sia al di sopra di ogni altra considerazione o finalità. « Omnia vincit », « Ueber alles », viva il profitto sempre, « for ever ». E' però vero, come dicevo, che anche in Svizzera si è delineato quel sentimento di angoscia, quel complesso di colpa, quella specie di paura che hanno fatto sì che dopo tante esitazioni sia emerso a livello di Consiglio federale il convincimento che non è possibile ignorare ulteriormente le responsabilità dei chimici di Ginevra e Basilea nel malaugurato incidente di Seveso. Malaugurato, perché sopra ci speculano i nemici dell'economia capitalista, gli angosciati dal mondo industriale, gli avversari delle multinazionali, gente che « sognava » un incidente come questo per aver l'occasione di sostenere la propria ideologia. Ma bisogna avere la coscienza che si è soli nel mondo, abbandonati a quanto sembra perfino dai rettori delle business schools americane, e quindi reagire per difendersi. Intervenire in aiuto dei sinistrati dì Seveso, come hanno promesso i due presidenti della Hoffmann-La Roche e della Confederazione elvetica — rispettivamente Adolf W. Jann e Rudolf Gnaegi — è quindi un ottimo principio. Al giorno d'oggi è pur necessario che qualcuno dimostri a tutto il mondo che la megaindustria moderna è il corrispettivo esatto di quello che fu nei tempi antichi la lancia di Achille, capace a un tempo di ferire e risanare. Vittorio Gorresio