Con i crediti d'Occidente di Paolo Garimberti

Con i crediti d'Occidente ARMI ED ECONOMIA NELLA POLITICA ESTERA DELL'URSS Con i crediti d'Occidente Mosca è accusata di usare le tecnologie occidentali per migliorare i propri armamenti anziché a fini pacifici - Smentisce, è convinta che la crisi del capitalismo non è definitiva e proclama necessaria la distensione; checché ne pensino i pc europei L'anno scorso, quando la breve estate moscovita stava volgendo al termine, la stampa sovietica fu animata da un dibattito sulla natura e le conseguenze della crisi economica dell'Occidente. Per alcuni pubblicisti, quali Zarodov e Timofeev, il capitalismo era giunto all'ultima spiaggia: la vittoria finale del socialismo era questione di pochi anni. Dall'altra parte, però, eminenti studiosi dell'Occidente, come Ino¬ czemtsev e Pletnev, ammoni- ' vano che il capitalismo stava attraversando soltanto una «crisi ciclica», più grave e profonda di altre che lo avevano colpito in passato, ma non definitiva. li dibattito —■ che si svolse soprattutto sulle pagine della Pravda, con una successione d'articoli contraddittori così intensa da sconcertare gli osservatori — non era soltanto una disputa teorica tra studiosi. Bensì, sembrava riflettere — a livello di politici, cioè all'interno dello stesso Politbjuro del pcus — uno scontro di tendenze sulla strategia da seguire nei confronti dell'Occidente in crisi: il concetto medesimo di distensione era messo in causa e confrontato con nostalgici elogi dell'autarchia staliniana. I discorsi dei più duri ideologi del Cremlino, da Suslov a Ponomarev, sem¬ bravano corrispondere alle tesi dogmatiche di Zarodov e Timofeev; mentre altri dirigenti sovietici, compresi Breznev e Kossighin, s'identificavano con la moderazione e l'attendismo dì Inozemtsev e Pletnev. Ora, a dodici mesi di distanza dal primo articolo di Zarodov sulla Pravda, il capitalismo comincia a riassorbire la sua crisi, ma la-distensione tra Est e Ovest attraversa uno dei momenti più delicati da sei anni a questa parte. Su questi due temi ho avuto recentemente a Mosca una lunga conversazione proprio con Inozemtsev, uno dei grandi protagonisti del dibattito di un anno fa nella stampa sovietica. Nikolaj Nikolaevic Inozemtsev, direttore dell'Istituto d'economia mondiale e relazioni internazionali di Mosca (il più articolato e sofisticato «serbatoio di pensiero» sovietico), non è soltanto uno studioso: membro candidato del comitato centrale del partito, egli è un policy maker, consigliere occasionale dello stesso Breznev. Le sue ricerche contribuiscono alla stesura dei discorsi dei dirigenti sovietici, compreso il rapporto che Breznev pronunciò in febbraio al XXV congresso del pcus. Secondo Inozemtsev non vi sono dubbi sul carattere ciclico della crisi dell'Occidente industrializzato: «La visione dell'Istituto, su questo punto, è sempre stata univoca», dice con maliziosa allusione ad altri studiosi sovietici. E' stata, tuttavia, una crisi più grave delle altre (egli stima che, nel dopoguerra, ve ne siano state cinque in tutto): «Per la sua profondità, dimostrata da un fortissimo declino della produzione; per la sua vastità, avendo essa colpito tutti i Paesi dell'Europa, gli Stati Uniti e il Giappone; per il grande aumento dell'inflazione; e per il livello di disoccupazione che ha creato. Inoltre, non è stata soltanto una crisi di sovrapproduzione, bensì una crisi delle strutture portanti delle economie capitaliste: tutta una, serie di strumenti regolatori del sistema monopolistico, che avevano egregiamente funzionato nel dopoguerra, ora non sono più in grado di reggere ». Attualmente, però, «prevale la tendenza alla ripresa» e Inozemtsev ritiene che la crisi sia, in buona misura, superata: tanto è vero che egli usa definirla «la crisi generale del capitalismo 1974'75». D'altra parte, Inozemtsev fa capire, abbastanza esplicitamente, che la fine della crisi occidentale è sfata accolta con sollievo dall'Urss e dagli altri Paesi orientali, che stanno risentendo gli effetti indotti dell'inflazione occidentale. La crisi polacca Con franchezza appena velata dal ricorso ad inevitabili formule di salvaguardia, Inozemtsev ammette che i benefici ideologici derivati al mondo comunista dalla crisi dell'Occidente (i leaders dell'Europa orientale hanno potuto vantare la « superiorità del socialismo sul capitalismo ») sono stati di gran lunga inferiori agli svantaggi economici: la recente crisi polacca è una clamorosa conferma. « I Paesi socialisti, dice dapprima Inozemtsev, hanno fatto ricorso al sistema d'integrazione economica ed hanno continuato a ricevere materie prime e petrolio allo stesso prezzo » (in realtà, l'Urss ha aumentato i prezzi verso i partners del Comecon, provocando gravi difficoltà alle loro economie fino al punto di far esplodere il caso polacco). Poi, aggiunge: « E' vero, però, che l'inflazione, l'aumento delle materie prime incidono sui rapporti commerciali tra gli Stati. L'Urss ha beneficiato del rialzo dei prezzi perché ha venduto petrolio più caro. Ma lo ha anche subito, perché le tecnologie importate dall'Occidente ora costano di più Perciò, noi non siamo favorevoli a queste variazioni, che sono contro l'idea stessa di programmazione. Noi siamo interessati alla stabilità dei prezzi, ad accordi a lungo termine e alle intese in compensazione ». La vittoria finale del socialismo, considerata imminente dagli Zarodov e dai Timofeev, sembra dunque ancora lontana a Inozemtsev (e il suo punto dì vista appare oggi prevalente anche tra i dirigenti del Cremlino). Il confronto tra i due massimi sistemi, il capitalismo e il socialismo, è destinato a continuare ancora per molti anni. Sarà un confronto pacifico, attraverso la ricerca di forme di coesistenza politica ed economica? Oppure, si tornerà all'aspro antagonismo di decenni passati? Riferisco ad Inozemtsev le impressioni d'un crescente e diffuso scetticismo, in Europa e ancor più in America, sulla distensione politica ed economica, ricavate da una serie di colloqui con esperti occidentali e dal convegno internazionale del Ceses a Wroclaw. Sul piano politico, le ragioni di tale sfiducia sono soprattutto: l'aumento del potenziale militare sovietico, l'intervento russo in Angola e il mancato accordo con l'America sulle armi strategiche. Sul piano economico, invece, il crescente indebitamento dei Paesi dell'Est (32 miliardi di dollari, secondo stime tedesche) e la dubbia destinazione dei crediti e delle tecnologie concessi dall'Occidente. Ad un convegno della Nato, a Bruxelles, Sir John Killick, ex ambasciatore inglese a Mosca, ha detto: « Qualcosa non va nel fatto che la macchina militare dell'Urss continua a guadagnare velocità e forza proprio mentre la sua economia è sempre più dipendente dalle esportazioni occidentali ». Con sincerità Inozemtsev replica, punto per punto, dosando sapientemente la rituale propaganda con una sincerità che, nel sistema sovietico, è prova d'autorevolezza. « Si fanno molte, troppe speculazioni sull'incremento del potenziale militare sovietico. Come avremmo potuto aumentare a dismisura gli armamenti e, al tempo stesso, migliorare il tenore di vita della popolazione, condurre la costruzione edilizia su larga scala, avviare il processo d'industrializzazione dell'Estremo Oriente? ». « Il bilancio militare dell'Urss è rimasto invariato negli ultimi anni. Certo, continua Inozemtsev, bisogna tener conto dei fattori inflazionistici, che comportano un aumento dei costi; ma anche il bilancio militare americano s'è dilatato in modo fantastico. Non c'è dubbio che le spese per gli armamenti sono un fardello pesante per la nostra economia; perciò proponiamo che i bilanci militari delle grandi potenze vengano ridotti. Ma questo non può essere un processo unilaterale, anche l'Occidente deve seguirci: non possiamo mettere a repentaglio la nostra sicurezza ». L'Angola è, per Inozemtsev, « soltanto un pretesto »: « Nel 1972, quando Nixon venne, a Mosca per la prima volta, noi aiutavamo il Vietnam assai più che l'Angola oggi. Eppure vennero raggiunti accordi molto importanti con gli americani. Sono dodici anni che aiutiamo il movimento di liberazione nazionale in Angola: perché avremmo dovuto ritirare la nostra assistenza, che è senza condizioni e senza richieste di benefici politici o strategici, proprio quando i nostri alleati stavano per prendere il potere? ». Il negoziato sulle armi strategiche, concede Inozemtsev, è « estremamente delicato perché tocca la sicurezza degli Stati Uniti e dell'Urss ». « Però, aggiunge, non siamo in un vicolo cieco, come dice qualcuno. A Vladivostok (tra Breznev e Ford: ndr) erano state raggiunte intese concrete. La nostra posizione, da allora, non è mutata: abbiamo fatto proposte per realizzare l'intesa di Vladivostok, ma i nostri partners non le hanno accettate ». Anche Inozemtsev, come la maggior parte degli osservatori sovietici, si dice convìnto che Timpasse dipende soprattutto da fattori elettorali americani. Sincero o no che sia questo ottimismo, esso non sembra giustificato dalla sfiducia sulla utilità degli accordi « Salt », che percorre in que sto momento l'America. Per quanto riguarda i rapporti ecor Est-Ovest, Inozemtsev i inonda¬ ti i timori e delusioni degli occidentali: « Non c'è ragione di stupirsi se il debito d^i Paesi socialisti aumenta: abbiamo fatto molti acquisti d'attrezzature negli ultimi anni ed è naturale che ciò abbia provocato un aumento del debito. D'altra parte, nessun Paese può acquistare attrezzature da un altro senza crediti. Ma il nostro indebitamento non è eccessivo, come pretende qualcuno. E, comunque, sarà presto ridotto perché si sono già iniziate le vendite dei prodotti degli stabilimenti realizzati in cooperazione con imprese e governi occidentali ». Ma le tecnologie occidentali vengono sempre destinate a fini pacifici? Oppure resta valido quanto disse una volta il defunto maresciallo Grechko: « Noi militari diciamo che cosa ci serve. Le nostre esigenze vengono soddisfatte: quello che resta è per il settore civile »? « I crediti, replica Inozemtsev, vengono concessi per destinazioni ben precise, facilmente controllabili dai creditori stessi anche perché spesso impiegati in imprese in cooperazione. E' ridicolo dire che usiamo le tecnologie occidentali per migliorare i nostri armamenti: abbiamo raggiunto la parità militare e strategica con l'America quando ancora i rapporti commerciali e lo scambio di tecnologie con l'Occidente erano ridotti al minimo ». Giova a tutti Da questa appassionata arringa difensiva e dal resto della conversazione con Inozemtsev, emerge comunque un dato importante e, mi pare, sincero: ì dirigenti sovietici mantengono — in parte per necessità e in parte per convenienza — una fede incrollabile nel processo di distensione. Visti gli umori occidentali, ora, prudentemente, non dicono più che tale processo è « irreversibile », bensì che è « necessario », che « giova agli uni come agli altri ». Secondo Inozemtsev, neppure l'avvento o la compartecipazione al potere dei comunisti in alcuni Paesi dell'Europa occidentale potrebbe essere un fattore destabilizzante per la distensione (ma la sua risposta fa sospettare che i sovietici pensino esattamente il contrario): « Saremmo cattivi marxisti, dice, se affermassimo che la distensione significa immobilismo ideologico. Ma i progressi delle forze di sinistra non debbono e non possono influenzare il processo di distensione, anche perché queste forze sono favorevoli a tale indirizzo. Le reazioni americane e tedesche sono una ingerenza negli affari interni di altri Paesi: bisogna che certa gente accetti l'idea che non siamo più nel secolo scorso, quando i monarchi si riunivano e decidevano di vietare le rivoluzioni ». Paolo Garimberti