I segreti della fuga da Lecce di Carlo Casalegno
I segreti della fuga da Lecce Il nostro Stato di Carlo Casalegno I segreti della fuga da Lecce Il giurista Neppi Modona, sulla Repubblica, ha espresso il sospetto che la fuga di Mesina, di Bellicini e dei due nappisti dal carcere di Lecce sia un'azione di «significato obbiettivamente provocatorio », organizzata da forze che hanno interesse non solo a impedire la riforma del sistema penitenziario, ma a seminare sfiducia nelle istituzioni e screditare lo Stato. Egli nutre su questa evasione gli stessi dubbi che nascono da tante oscure vicende del terrorismo e dei tentativi di golpe. L'articolista ipotizza la connivenza di « autorità statali » in questo scandalo carcerario, come già nella fuga di Curdo dalla prigione di Casale; e chiedendosi « a chi giova? », conclude con l'invito a «battere i disegni delle forze conservatrici ». Sarebbe facile rispondere che l'evasione di Lecce giova ai delinquenti tornati in libertà (provvisoriamente, speriamo) e chiudere il discorso. Per quanto la lunga serie di attentati impuniti, di congiure scoperte a metà e di scandali insabbiati ci abbia reso diffidenti, stentiamo a vedere un complotto delle solite «forze conservatrici» anche nella fuga di Mesina e Bellicini: non riusciamo a scorgere la mano di misteriosi «corpi separati» in un'evasione certo rocambolesca, ma preceduta da infiniti episodi analoghi in tempi e in paesi non sospetti d'intossicazione politica; e non ci sorprende il collegamento, ormai abbastanza frequente, tra criminali comuni e guerriglieri. E' tipico dei nappisti lavorare nelle carceri e arruolare complici o simpatizzanti tra i detenuti. Tuttavia, se non condividiamo l'abuso della doman da « a chi giova? », adoperata tanto spesso negli ultimi anni per cercar di sfuggire a realtà sgradevoli, e se riteniamo fantapolitica l'ipotesi di Neppi Modona, pensiamo anche noi che le « autorità statali » abbiano delle colpe nell'evasione di Lecce. Come spesso negli scandali italiani, sono però colpe di segno negativo. Non sono piani criminosi, abili congiure, manovre spregiudicate ma accorte, magari grandi delitti: sono invece peccati d'inefficienza o di pigrizia, omissioni, inerzie burocratiche, promesse non mantenute, riforme vagheggiate e mai realizzate. La grande fuga di Lecce non fa eccezione. E' possibile che una guardia, un funzionario, persino un avvocato (è già ac- caduto) abbiano aiutato gli evasi, introducendo armi in carcere e favorendo collegamenti all'interno e all'esterno della casa di pena. Ma non c'era nulla di clandestino nelle condizioni che hanno consentito la fuga a sorpresa, d'una dozzina di criminali. Il carcere di Lecce era considerato « sicuro »: forse a ragione, perché meno primitivo, più razionale d'altri penitenziari. Ma, costruito per ospitare 120 detenuti, ne raccoglieva 53 di più. Su un organico di 70 agenti dì custodia, la sera dell'evasione neppure un quarto prestava servizio, e quattro soli uomini controllavano le celle. E, fatto decisivo, in mezzo ai 173 detenuti si trovavano alcuni campioni della criminalità comune e politica, esperti in rivolte carcerarie o evasioni, abili a sfruttare tutte le risorse di un regime che giustamente non incatena i prigionieri alle pareti, e capaci d'imporre agli altri detenuti un'egemonia dispotica e ferrea. La realtà delle carceri è questa; e non per gli «eccessi» d'una riforma che taluni pretendono troppo indulgente o permissiva, ma che finora è stata realizzata a metà o non è stata realizzata affatto. L'universo carcerario italiano vive all'insegna del paradosso e delle contraddizioni. Il lassismo s'incontra con l'arbitrio. Le parziali riforme sono distorte dall'insufficienza d'uomini e di mezzi. La pena ha perduto taluni caratteri afflittivi, ma l'impegno alla rieducazione dei detenuti non può essere mantenuto. L'affollamento, la disorganizzazione e la paura, se non la corruzione, favoriscono l'onnipoten¬ za delle mafie interne al carcere: la violenza dei detenuti forti sui detenuti deboli diventa legge corrente, ed è molto più crudele — come l'on. Pafetta ha spiegato — che la puntigliosa applicazione d'un regolamento severo. Ma — fatto più grave di tutti — il carcere non protegge la società dalla minaccia dei più temibili criminali professionisti, mentre è scuola di criminalità per i piccoli delinquenti, i ladri di polli, i giovani traviati e ancora recuperabili. Tante difficoltà organizzative, logistiche, giuridiche, processuali ostacolano una distribuzione razionale dei detenuti, l'isolamento dei criminali pericolosi, la separazione dei «politici», la applicazione d'un regime diverso ai grandi criminali e ai detenuti innocui. Durante le istruttorie e ì processi, i magistrati debbono tener vicini gli imputati. Le carceri meglio protette sono sovraffollate, le prigioni tranquille mancano di attrezzature. Decine di migliaia di detenuti, dal ladruncolo in attesa di giudizio (e forse innocente) al bandito più volte recidivo, creerebbero gravi problemi anche ad un'amministrazione più efficiente. Ma nessuno può dubitare che si crei una miscela esplosiva, quando nello stesso carcere gremito si trovano insieme un boss del «clan dei marsigliesi», l'ultimo dei grandi banditi sardi e il nappista che organizzò la rivolta di Viterbo, con le armi e la ricetrasmittente ricevute in cella. E infatti da Lecce sono scappati con una tipica azione di «commando». Senza pretendere d'insegnare il mestiere agli esperti, ci sembra di poter affermare che le carceri saranno più sicure per gli agenti di custodia e per i detenuti indifesi, che le grandi evasioni diventeranno meno frequenti, e che la riforma, strumento indispensabile per la «redenzione» dei detenuti non ancora irrecuperabili, sarà finalmente attuata, se non si ammucchieranno nelle stesse prigioni sovraffollate i grandi criminali ed i piccoli delinquenti, e se i Mesina, i Bellicini, gli Zichitella saranno isolati e custoditi con un rigore inutile, e controproducente, per tanti loro compagni di pena. La società ha l'obbligo di non abbandonare chi ha sbagliato; ha anche il dovere di difendersi da chi minaccia la convivenza civile.
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