Il Libano è ormai spartito di Mimmo Candito

Il Libano è ormai spartito DALLA GUERRA CIVILE È SORTO LO STATO MARONITA Il Libano è ormai spartito Beirut è divisa come Berlino: a Ovest la zona islamica, ad Est la repubblica cristiana - Si regge sulla tradizione religiosa; su una struttura tra feudale ed affaristica; sul piccolo e bene armato esercito della Falange - Dentro e attorno immense rovine (Dal nostro inviato speciale) Beirut Est, agosto. Lo Stato maronita ha la sua Jrontiera al carrefour del museo. E' una frontiera inventata, per uno Stato che ancora non esiste ufflcialmente; ma a difenderla ci sono uomini in arme e reticolati. Da questa parte e da Quella, si parla una stessa lingua, tra loro stanno le atrocità di diciassette mesi di guerra civile. I soldati siriani che vegliano la morte del Libano capitalista e confessionale proteggono intanto questa secessione, le strade del Kesruan sono da sempre territorio cristiano, e la montagna al Nord dà la sicurezza orgogliosa degli antichi ricordi crociati. La guerra continua, ma c'è già un vincitore; il suo motto è «Dio, Patria, Famiglia». Il carrefour è un incrocio sbilenco, sessanta metri di no man's land tagliati dai tiri dei cecchini. E' l'unico passaggio aperto tra due città di due Stati nemici: Beirut Ovest, capitale del Libano musulmano e palestinese, e Beirut Est, capitale del nuovo Stato maronita. I soldati della Lega araba restano sul territorio del vecchio Libano, il loro carro armato prende il sole alla fine del lungo viale che si apre sull'incrocio, protetto dal muro d'un antico palazzo ormai disabitato; sono stati mandati a far da pacieri tra i due schieramenti, ma se osassero muoversi oltre il muro i cecchini li abbatterebbero. I cristiani, almeno per ora, non sanno che farsene dei caschi verdi arabi: alla propria «indipendenza» sanno già come badare. L'attraversamento della frontiera è sempre un rischio; la vita di chi s'avventura dipende dagli umori dei franchi tiratori e dalla tensione del momento, un piccolo furgone col parabrezza frantumato dal colpo preciso dello sniper è abbandonato in un angolo a ricordare che lì si muore. Al centro della strada, da un'enorme buca aperta da una cannonata, l'acqua delle tubature sfondate direnta una fon- tana di zampilli. Passano poche auto al giorno, una decina, non più; c'è il silenzio delle cicale. A terra, bossoli e pallottole d'ogni calibro si perdono tra le foglie che nessuno più. spazza. Chi riesce a passare venendo da Beirut Ovest, trova un confine di sacchetti di sabbia e rotoli di filo spinato; al di là, la stradina dell'Hotel de Dieu con due checkpoints in cento metri. Non c'è nessuno, tranne i soldati falangisti e i profughi d'uno dei tanti ex quartieri musulmani ormai «puliti» dalle vittorie dei kataéb: camion di autisti armeni (sono neutrali, nessun musulmano rischierebbe di venire fin qua) sono fermi in una corta fila al bordo del marciapiede, caricano e trasportano a Ovest materassi, armadi sottili, poveri salotti colorati che arrivano da Jisr el Basha, Nabaa o Tali al Zaatar. Lo Stato maronita ha avuto la sua consacrazione nella caduta di Tali al Zaatar; conquistata l'ultima enclave, il territorio è ora omogeneo. Non comprende tutti i cristiani: più d'un terzo di loro ha deciso dì restare nelle regioni controllate dalle forze progressiste; ma quelli che vi abitano sono tutti maroniti o comunque d'una comunità cristiana, cattolici, greco-ortodossi, siriaci, presbiteriani, giacobiti, nestoriani, caldei, latini. E' una strìscia di terra che, partendo da qui, si spinge verso Nord per circa venticinque chilometri, lungo le linee morbide della costa; all'interno, passa attraverso il Kesruan e il Metn e finisce nella Bekaa tra le braccia e i cannoni dei siriani. I palestinesi tengono ancora Aintura e Mtein sulla cresta dei monti alle spalle di Beirut, ma la battaglia è già cominciata: ottomila falangisti e un centinaio di carri e mortai assediano i due pìccoli villaggi, la resistenza probabilmente non arriverà al 23 settembre. Quando il nuovo presidente, Elias Sarkis, assumerà le sue funzioni avrà di fronte a sé il fantasma del vecchio Libano e la realtà di fatto del nuovo Stato cristiano. Achrafie, il quartiere residenziale di Beirut Est, dove ogni angolo di strada ha un santo in bacheca, preferisce il francese all'arabo; questa gente ama sentirsi legata all'Occidente, rivendica le proprie origini fenicie, chiama già Beirut Ovest «l'altra nazione». A lungo, quando le sorti della guerra sembravano segnare la vittoria di Arafat e Jumblat, ha temuto l'invasione e il saccheggio; diceva che i musulmani non hanno dimenticato Poìtiers, riscopriva paure ancestrali sorprendenti in un paese che aveva fondato la sua esistenza istituzionale sulle basi dell'interconlessionalismo. Ma i monaci maroniti — proprietari del trenta per cento delle terre di quello Stato — hanno da sempre difeso la concezione di una chiesa «società perfetta», fonte del potere temporale e strumento essenziale di questo potere; la religione si faceva realtà politica, e fede e vita pubblica erano due fasi coincidenti d'una storia comune. Se una motivazione psicologica può essere trovata alla ferocia del massacro di Karanten e di Tali al Zaatar, essa sta anche nella ossessione d'un antico terrore religioso; e la chiesa-bastione, che ha socializzato la propria autorità, le proprie tradizioni e il suo ordine economico, ha ora costruito anche la chiesa-nazione. Il centro operativo dell'attacco a Tali al Zaatar si trovava nel convento di Mashraya, sulla collina che domina Beirut; le «tigri» di Chamun indirizzavano i tiri dei mortai dalle stesse stanze in cui i monaci antoniani leggevano i loro santi libri. Al collo dei falangisti dondola una grande croce d'argento, sul frontone dei loro carri armati ci sono lucidi manifesti a colori di Gesù Cristo e della Madonna, il loro motto è «Dio, Patria, Famiglia». La società libanese non era praticante, ma il confessionalismo segnava i caratteri della divisione comunitaria e ogni struttura del paese: musulmani o crij stiani, tutti gli atti della vita privata finivano per assorbire le conseguenze di queste barriere, l'equilibrio e l'autonomia individuale cedevano alla polarizzazione teocratica. Le conseguenze hanno avuto valori assai marcati perché tra gruppi etnìco-relìgìosi e condizioni sociali c'erano rapporti di forte omogeneìtà: il pluralismo dello Stato era in realtà una netta divisione del potere, il capitalismo libanese aveva la sua forza nella comunità maronita e nel controllo di questa sugli organismi finanziari e commerciali, sul settore pubblico e sull'agricoltura. Gemayel, il capo della Falange, dice che è stata fatta guerra ai palestinesi perché volevano impadronirsi del Libano; più realisticamente, è stata fatta guerra al pericolo d'una trasformazione sociale che i palestinesi minacciavano d'introdurre nella vecchia ripartizione dei privilegi e delle alleanze. E i palestinesi erano anche arabi, musulmani, l'inconscia sensazione dì una paura: il pericolo immaginario verso cui indirizzare la propaganda fascista e razzista del milieu piccoloborghese cristiano. Così ora c'è il nuovo Stato maronita. Beirut-Est ha organizzato la sua recente « indipendenza »: ha esercito, polizia, tribunale, tasse, un porto, presto anche l'aeroporto. Il controllo del « paese » è nelle mani delle tre grandi famiglie: i Gemayel (la Falange), gli Chamun (« tigri » e partito nazionale) e i Franjie (presidenza della repubblica e feudo di Zghorta). Gli an- ziani sheick, pur ancora tenacemente al potere, hanno già trasmesso autorità e mestiere ai figli Bachir e Amin (Gemayel), Dory e Dany (Chamun), Tony (Franjie): dietro di questi, traffici di ogni genere: mercato della droga, delle armi, del carburante, una tangente fissa del 25 per cento su ogni importazione, speculazioni finanziarie a Parigi e New York. E' l'antica regola libanese della corruzione come business, le due Beirut ne parlano senza scandalo. L'esercito è la Falange, le « tigri », alcune centinaia di uomini della dissolta Armée, poche decine di mercenari, per lo più francesi. Le cifre sono incostanti, da 10 mila fino a SO mila combattenti; appare assai vicino alla realtà il limite di 25 mila. Molti uomini sono stati addestrati dai giordani, molti hanno usato due campi (uno è per le tremila miliziane) sulle pendici del Mont Liban. L'armamento è assai moderno, arriva al sofisticato mìssile terra-terra « Milan »; abbiamo '.sto cannoni d'ogni potenza, fino all'enorme «155», cannoncini occidentali, carri armati sovietici: forse « omaggio » degli israeliani, forse dei siriani. C'è una polizia militare — si è autonominata « 1" reggimento blindato » — e una civile, ma le notti buie di Beirut Est sono ancora poco rassicuranti. La capitale maronita tenta di trovarsi una dimensione amministrativa, però i guasti della guerra sono enormi. Al banditismo e al saccheggio s'unisce il terrore dei bombardamenti, assai violenti in queste ultime settimane; molte attività commerciali sono impossibili, le banche sono quasi sempre chiuse, l'asfissia finanziaria ha stroncato l'iniziativa imprenditoriale. Una capacità incredibile di sopravvivenza consente — come a Beirut Ovest — di aggirare le mille difficoltà che nascono dalla mancanza di tutto quanto fa la vita d'una grande citta moderna, l'inventiva si realizza nelle for¬ me più geniali di adattamento. E poi c'è Junieh. Era una piccola città portuale, 30 mila abitanti, qualche barca di lusso accanto alle lance dei pescatori, un circolo raffinato per le vacanze della borghesia libanese. Distrutto il porto di Beirut, Junieh è diventata il polmone dello Stato maronita: ora ha .'50 mila abitanti, cinema, case da gioco, una vita mondana e spendacciona. Protetta da ogni pericolo di guerra perché ben dentro il territorio cristiano sfrutta con caotica efficienza il piccolo molo: decine di battelli d'ogni tipo assicurano i rifornimenti vitali alla recente « indipendenza» (sbarcano armi, carburante, grano, olio, carne), armatori improvvisati offrono passaggi avventurosi e a caro prezzo ai ricchi libanesi in fuga verso Cipro. Il fumo degli incendi di Beirut si vede solo nelle giornate molto limpide, ed è una piccola striatura all'orizzonte, quasi una nuvola. Mentre Sidone e Tyro sono inutili al Libano che sta a Ovest, perché le navi israeliane e siriane bloccano ogni barca che tenta di rompere l'assedio, Junieh e la sua frenetica libertà misurano ora il valore del successo ottenuto grazie all'aiuto dei 13 mila soldati inviati da Damasco: il nuovo Stato maronita — giudicato fantapolitica un anno fa — è una realtà della crisi libanese, e Gerusalemme e Washington mostrano di volerne usare per la determinazione dei nuovi equilibri politici nella regione. Il complesso dell'isolamento sparisce nell'euforia delle nuove potenti amicizie. Forse la prossima fase sarà la creazione d'un Libano cantonale, come la SvizzeI ra; ma intanto questo è uno Stato. E quando si lascia la frontiera di Beirut Est, verso la lunga paura del carrefour del museo, bisogna pagare 25 sterline: è una tassa di dogana, come in ogni Paese sovrano. Mimmo Candito ftcoNrnouo a MUSUIMAHO n ammollo 1] SIRIANO ZOItA occupata dai caschi blu OEU'onu

Persone citate: Arafat, Basha, Elias Sarkis, Gemayel, Mont