L'iniqua legge dei 7 anni di Nicola Adelfì

L'iniqua legge dei 7 anni Yoi e noi di Nicola Adelfì. L'iniqua legge dei 7 anni Che brutta cosa essere ignoranti in questo nostro mondo; così inizia più o meno la lettera di un novarese che non vuole essere nominato, e che ignorante non è. Egli ha letto la sentenza della Corte Costituzionale che suggella la legittimità dei cospicui benefici concessi a una sola categoria di ex combattenti, i dipendenti pubblici. L'ha letta e riletta, e sempre allo stesso punto è scoppiato a ridere. Lo ha fatto quando si è imbattuto in un passo di quella sentenza dove è detto che, a prescindere dalla «comune e doverosa dedizione al servizio della Patria», da parte di tutti i cittadini, è ineccepibile la legge che ha regalato e continua a regalare Dio solo sa quante centinaia di miliardi agli ex combattenti se dipendenti pubblici; e viceversa considera immeritevoli di qualsiasi elemosinuccia tutti gli altri ex combattenti. Dunque tutti uguali quando la Patria chiama a combattere il nemico: ma poi, finita la guerra, quella stessa Patria si mette a fare distinzioni e dà oro agli uni, calci agli altri, non tenendo nessun conto della maggiore o minore dedizione, ma andando a vedere se uno è oppure non è pubblico dipendente. Nella sua sorridente (ma non tanto) ignoranza, il lettore mi prospetta un caso preciso. Lui e un suo amico furono chiamati alle armi nell'autunno 1942. Lui fece tre anni fra guerra e prigionia e tornò a casa molto malconcio nella salute; il suo amico invece riuscì a imboscarsi in uffici militari. Grazie alla legge n. 336 del maggio 1970, il suo amico, non ancora cinquantenne e pubblico dipendente, incassò decine di milioni di liquidazione, si gode ora il massimo della pensione (circa mezzo milione il mese) e si guadagna un ottimo stipendio lavorando presso una ditta privata. Ben diversa è la condizione di chi mi scrive: poiché impiegato privato, gli toccherà tirare la carretta ancora per anni se vuole il massimo della pensione. Il lettore non osa dubitare della saggezza del Parlamento nell'approvare la suddetta legge, e tanto meno si permette criticare l'acutezza giuridica della Corte Costituzionale. Però non gli va giù l'idea di essere guardato dalla Patria come un figlio bastardo. Da una parte egli ved. la Patria rivolgersi al suo amico imboscato e dirgli: «Tu sei il figlio mio, sì, tu, caro, ca- rissimo, ed eccoti tanto denaro anche se io sono indebitata fino al collo». E implicitamente la stessa Patria dire a lui: «Tu no, tu non sei mio figlio. Chi ti conosce? Vattene via, bruito Calimero, alla larga, alla larga». La lettera finisce così: «Poiché io sono manifestamente un ignorante, vorrebbe lei essere così gentile da spiegarmi alla buona perché fu fatta quella legge e i motivi giuridici che hanno convinto la Corte Costituzionale a ritenerla legittima, nonostante il parere contrario di numerosi tribunali?». Pazientemente sono andato a leggere la sentenza, ed eccomi frastornato come il rustico Renzo Tramaglino davanti al latinorum di don Abbondio e ai giochi di bussolotti di «quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso», che teneva lo studio a Lecco e il volgo chiamava dottor Azzecca-garbugli. Per esempio, nella sentenza della Corte Costituzionale trovo che la legge fu fatta «anche per promuovere, quanto meno, un primo passo concreto verso la riforma della pubblica amministrazione: non si tratta quindi di un irrazionale privilegio settoriale, che contrasti col buon andamento dei pubblici uffici, né, tanto meno, di una distorsione, a fini ultronei, della spesa pubblica». (Sì, avete letto bene, è proprio scritto «ultronei». Andiamo a sfogliare il dizionario: «ultroneo — aggettivo letterario raro dal tardo latino ultroneus — volontario, spontaneo». Insoddisfatti dal dizionario, andiamo a guardare in un vocabolario latino-italiano. Però ultroneus non c'è. Evidentemente è un aggettivo apparso in un periodo oscuro, di decadenza). Sorvoliamo l'ostacolo, e domandiamoci: la legge sui figli legittimi e bastardi della Patria ha sul serio promosso «un primo passo concreto verso la riforma della pubblica amministrazione»? A me non risulta. E neppure mi risulta che la legge in questione abbia tolto un po' di ruggine al «buon andamento dei pubblici uffici». Al contrario, anzi. Uno dei motivi del decadimento dei pubblici uffici viene indicato nel fatto che molti e valenti funzionari li hanno abbandonati di corsa, approfittando della manna caduta dal cielo; e vitali organi dello Stato si sono trovati decapitati all'improvviso. Procediamo nella lettura della sentenza: «La tendenziale assimilazione dei due rapporti — lavoro privato e pubblico impiego — è rimessa a una graduale evoluzione del sistema affidato al solo legislatore, quale naturale interprete delle istanze politiche e sociali della comunità nazionale». Casco di male in peggio: al pari del lettore novarese, nemmeno io riesco a capirci gran che. Come un viandante che attraversa di notte un fitto bosco sotto la pioggia, e solo qualche lampo gli illumina il cammino, ho la vaghissima intuizione che nella sentenza si accenni a un imprecisabile futuro dove tutti saranno impiegati pubblici, e avranno un uguale trattamento. Un futuro dunque come si legge nei romanzi di fantascienza o come lo sognano i nostri giovani maoisti, con gli individui inquadrati e remunerati allo stesso modo? Qui giunto mi arrendo: i corxett' dei giudici costituzionali sono immensamente superiori alle mie capacità mentali. Più mi sforzo di capire, e più mi si confondono le idee. E allora? In ossequio a un consesso così altolocato qual è la Corte Costituzione, mi dico che se un cittadino lasciò qualche pezzo delia sua carne sui campì di battaglia, e però lavora presso una ditta privata, è giusto che la Patria lo ignori. Viceversa se un altro trascorse qualche mese di guerra al calduccio di un ufficio nelle retrovie, e però è pubblico dipendente, allora è altrettanto giusto che la Patria gli dia materne promozioni, liquidazioni e pensioni anticipate. Tutto semplice, tutto chiaro. Insomma, tutto ultroneo.

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