Un Paese in bilico di Antonio Ghirelli

Un Paese in bilico Un Paese in bilico Sebbene sia tutt'altro che esilarante, la condizione attuale del nostro Paese ricorda assai da vicino una delle più celebri scene del cinema chapliniano e più esattamente la sequenza della « Febbre dell'oro » in cui Chaplin si scopre capitato per caso in una specie di casa mobile che ruzzola sul ciglio di un profondo burrone e vive attimi di sbigottito terrore, accresciuti dai suoi inconsulti spostamenti dall'una all'altra porta del piccolo edificio, che diminuiscono o aumentano a dismisura il pericolo di una catastrofe. Nel capolavoro di Chaplin, la sequenza si conclude con un « happy end », perché il piccolo vagabondo riesce bene o male a saltare fuori dalla casetta prima che essa precipiti nell'abisso; e questo per la verità è l'unico punto in cui, almeno finora, la similitudine non regge, sia perché fortunatamente il salto nel vuoto non è affatto certo, sia perché disgraziatamente non è neppure sicuro che sapremo cavarcela cosi a buon mercato. Ma, per il resto, che l'Italia sia un Paese in bilico su un abisso, appare fuori discussione. L'immagine resta vera tanto se guardiamo al futuro con gli occhi marxisti di chi crede che solo una radicale trasformazione del sistema possa risolvere la crisi, quanto se nutriamo tale fiducia nella libertà da puntare sulla razionalizzazione delle strutture attuali come sulla sola soluzione desiderabile. Bisogna anzi aggiungere che soltanto esigue minoranze professano, al momento, convincimenti cosi netti: a parlare di rivoluzione sono rimasti in pochissimi, per lo più giovani, privi di responsabilità impegnative, quando non addirittura emarginati dal cuore pulsante Ideila società; ma a difendere la logica dell'iniziativa privata, a credere nel recupero dello Stato liberale, a giurare sulle ragioni dell'individuo, in una sola parola a scommettere sulla vittoria del neo-capitalismo, sono gruppi ancor più esigui. Il discredito gettato sul « dio che è fallito » dalle atroci vicende dello stalinismo, dalla repressione di Budapest e di Praga, dallo scisma di Belgrado e di Pechino, trova il suo puntuale contrappunto nel disprezzo di cui si circonda un'organizzazione produttiva che ha legato il suo nome alle tragedie del Medio Oriente e del Vietnam, del Cile e dell'Angola, di Dallas e di Seveso. Dissolti i fumi dell'ideologia, è emersa in tutta la sua oscena nudità la lotta per il Potere e per il Profitto, la « Chose » denunciata da Sartre e prevista da Kafka come l'invisibile, immondo padrone del Castello entro cui siamo tutti chiusi come in un lager. Per quanto ci riguarda più da vicino, anche la ragione laica che pareva la sola, cumulativa difesa contro i due mostri, ha segnato recentemente una amara sconfitta. L'esito del referendum sul divorzio e l'andamento delle elezioni amministrative dell'anno scorso avevano alimentato un ottimismo senza limiti sulla possibilità di modificare in profondità le nostre strutture civili senza rinunciare ad una sola delle rivendicazioni libertarie alimentate dalla contestazione dei sindacati, dei giovani, delle femministe. Il risultato delle elezioni di quest'anno ha distrutto gran parte di queste illusioni, perché ha coinciso con il mancato successo dei repubblicani e dei socialisti, con la modestissima affermazione dei radicali, con i furibondi dissensi esplosi tra i gruppi confluiti nell'intesa di democrazia proletaria; e soprattutto con l'avanzata impetuosa dei comunisti e la mancata «abrogazione» della democrazia cristiana. Con una reazione forse eccessiva ma comprensibile, si è passati anzi dall'euforia alla disperazione, valutandosi come irreversibile la tendenza dell'elettorato a coagularsi intorno ui due poli maggiori del firmamento politico e giudicandosi alla stregua di una patetica battaglia di retroguardia la lotta dei partiti minori per la loro sopravvivenza. Ma in bilico, per una crudele ironia della storia, appare anche il confuso ed approssimativo congegno che i due vincitori del 21 giugno hanno messo frettolosamente insieme per governare in qualche modo il Paese. I democristiani non sono sicuri di padroneggiare né il nemico esterno, né la dissidenza interna, senza contare che hanno ormai perduto ogni alleato; i comunisti, angosciati dal ricatto di Yalta e dall'incubo di Santiago, muovono passi tanto più cauti quanto più sono costretti ad uscire allo scoperto, a misurarsi con problemi giganteschi, a barattare vecchie certezze teoriche con improvvisate strategie contingenti. Verrà presto il tempo di affondare il bisturi nelle piaghe endemiche della società nazionale — la spesa pubblica, il deficit degli enti locali, il crollo della produttività e della competitività industriale — e allora, i compromessi verbali non avranno più senso, bisognerà operare scelte crudeli ed impietose, farsi molti nemici, guardare in faccia gli elettori. La gente lo sa, lo sente. Ha vissuto la sua estate senza spensieratezza, come aveva fatto fino all'anno scorso, ma anche senza sgomento, o, per essere più precisi, ha fatto mentalmente quel che Charlot faceva, materialmente, nella casa dei cercatori d'oro, correndo da un'ipotesi all'altra, da un sogno ad un calcolo, dalla paura di perdere tutto all'impegno di tutto difendere. A seconda delle proprie opinioni e dei propri interessi la gente si è chiesta febbrilmente se le sarà possibile salvare la rivoluzione o la libertà, la ricchezza o il posto di lavoro, la fede o il potere. Per un altro popolo, sarebbe stata un'estate drammatica; per noi italiani, abituati da sempre a dubitare del futuro, è stata soltanto un'estate inquieta, nervosa, instabile; una stagione di tormentosa attesa in fondo alla quale, nonostante tutto, rimane l'irragionevole e luminosa speranza di un lieto fine. Antonio Ghirelli

Persone citate: Chaplin, Kafka, Sartre