I signori della diossina di Vittorio Gorresio

I signori della diossina GLI INDUSTRIALI SVIZZERI SI SPIEGANO IN TV I signori della diossina Sono pronti a pagare i danni, pur diffidando dell'inchiesta italiana - E' già un progresso, in confronto alle tenaci resistenze dopo la tragedia di Mattinarle - Cambia anche in Svizzera la maniera di guardare il inondo Zurigo, agosto. Visti dal vero, al vivo, ma pure sullo specchio della televisione e financo fermi e schiacciati nel bianco e nero di una fotografia di giornale, i tre personaggi che hanno tenuto a Basilea la famosa conferenza stampa di lunedì 11 agosto sul dramma della diossina di Seveso, apparivano esseri perfettamente tipificati. Ricchi, potenti, sicuri, inattaccabili, ma anche «superiori» nel senso usato correntemente dalla peggiore letteratura paranoica razzista. Nessuna deviazione dal tipo in loro tre: tutti e tre mirabilmente assestati nel tenere banco di fronte a pochi giornalisti (e anche discreti, per la verità) ed ugualmente a proprio agio sia nel parlare sia nel tacere. Taceva per esempio il signor Hartmann (una fuggevole rassomiglianza con il nostro onorevole Alfredo Co- velli, da giovane) vicepresidente della Hoffmann-La Roche, ma era ugualmente espressivo. Col suo silenzio sottolineava la giustezza delle affermazioni del suo presidente Adolf Jann (aria da padrone di casa, faccia da onnipotente, immagine dell'uomo che mai nessuno ha osato contraddire, e forse anche per questo sobrio e di poche parole). Più articolato e quasi al limite della polemica (ma una polemica subito rattenuta come per non sprecare parole attorno a una questione che deve essere per tutti chiara e non offrire spazio a controversie) il terzo uomo, che era Guy Waldvogel, direttore generale della Givaudan, società anonima con sede a Ginevra, sussidiaria della HoffmannLa Roche e parente diretta dell'Icmesa. Tanto per dare un'idea fisionomica, informo che il di- rettore Waldvogel ha qualche cosa che ricorda il presidente Gìscard d'Estaing, soprattutto nei momenti e nelle pose dì distacco dagli interlocutori. Egli ha detto quel giorno di non avere ancora ricevuto indicazioni sulle cause dell'incìdente, e tale spiacevole manennza di notizie, tale malaugurata circostanza ritardatrice degli aiuti che la società è pronta a fornire, naturalmente è a carico degli italiani. Ma in pratica, secondo gli svizzeri dirigenti comparsi a Basilea, che mai può essere accaduto? «Forse c'è stato un errore umano». Un sabotaggio è da escludere? Senza nessuna gioia, Waldvogel ha risposto che ne manca ogni indizio. L'Icmesa non aveva elaborato un «piano di disastro», essendo una fabbrica di piccole dimensioni. Piccola la fabbrica, anche il disastro avrebbe dovuto tenersi entro minuscole proporzioni: «Non escludevamo certe possibilità di incidenti, ma nessuno si attendeva una diffusione di gas tossici nella zona attorno allo stabilimento, dato che in quattro analoghi incidenti precedenti, uno dei quali nella fabbrica tedesca della Basf, la contaminazione era stata limitata agli impianti stessi». In ogni modo, per Waldvogel, non ha fondamento il sospetto che i proprietari svizzeri avessero scelto di produrre in Italia le loro sostanze pericolose, perché in tal modo la Givaudan avrebbe avuto meno problemi di sicurezza cui badare: «Per carità: avremmo gestito lo stesso stabilimento nello stesso modo, se fosse stato in Svizzera- Anche in Italia i regolamenti sono analoghi, se non uguali, a quelli che vigono in Svizzera». Pronti a pagare Si era stabilito quel clima di sufficienza che si addice allo scioglimento di un lungo dibattito, quando finalmente si può arrivare alla bonaria banalità liberatoria, secondo la quale tutto è bene quel che finisce bene. Il presidente Adolf Jann disse difatti per concludere che la sua società si assume la piena responsabilità dell'incidente, non volendo sottrarsi a conseguenza alcuna: «Noi pagheremo tutti i danni», confermò con un tono così duro che pareva una minaccia. E difatti un odore di minaccia era nell'aria, contro chi facesse circolare insinuazioni lesive della rispettabilità e solvibilità di una ditta superiore a ogni sospetto: «Anche se non abbiamo ancora ricevuto una valutazione dei danni, siamo certi di avere sufficienti risorse finanziarie per un indennizzo totale». Non è da tutti gettare sul tavolo di una discussione un argomento deterrente di questo peso: ma chi è molto ricco in un mondo abitato generalmente da poveri (e in quanto poveri più facilmente esposti alle sventure e più spesso ridotti nella triste condizione di postulanti giustizia) ben conosce la propria forza e non ha esitazioni a sfruttarla, per mortificare o almeno per tacitare gli altri. Fu appunto quello il momento saliente dell'insolenza del «superiore» nella conferenza stampa di Basilea, e il presidente della Hoffmann-La Roche lo condiva con una scelta di battute offensive per noi. «Gli italiani non hanno capito che la nostra offerta di 300 mila franchi non era un indennizzo ma un primo aiuto, e l'hanno rifiutata. Gli abbiamo presentato un programma di decontaminazione, e non ci hanno risposto. La consorella svizzera dell'Icmesa, cioè la Givaudan, incontra grandi difficoltà nella sua ricerca di collaborazione: gli italiani non vogliono che esperti stranieri si intromettano nel loro lavoro. C'è una certa mancanza di fiducia da parte degli italiani... ». Un giornalista svizzero a questo punto li aiutò suggerendogli con una domanda opportuna una risposta utile: «Lei con ciò vuole dire che la Hoffmann-La Roche aveva un piano di aiuti, ma che non ha potuto realizzarlo per il mancato benestare delle autorità italiane? ». «Esatto!», rispose il presidente colto da gratitudine e sollievo per sentirsi finalmente capito. Il presidente della Regione Lombardia, Cesare Golfari, ha già provveduto a confutare o rettificare le più audaci affermazioni del presidente della Hoffmann-La Roche, sicché non mette conto di ritornare sulla polemica. Però a me interessava cogliere da qualche segno possibili indizi dello stato d'animo dei grandi svizzeri a proposito di loro responsabilità nel dramma che ha colpito cittadini di :in popolo classificato « seconda categoria ». Ai tempi della frana che una decina d'anni fa uccise tanti operai italiani mal protetti nei lavori per la costruzione della diga di Matt- mark, gli stessi grandi svizzeri che ora si sono limitati ad essere soltanto insolenti, erano stati brutali nel rifiuto di indennizzi. Ho notato un progresso, perciò, e ne vorrei cercare spiegazioni o cagioni. Allora si trattava di operai emigrati, Gastarbeiter, vale a dire appartenenti a categorie e condizioni umane nettamente inferiori a quelle delle vittime di Seveso, che lavoravano in casa propria per il profitto di terzi. Anche tra gli «inferiori» si deve ammettere l'esistenza di gerarchie, che d'altra parte è sempre conveniente rispettare proprio allo scopo che ciascuno straniero conosca meglio il posto dove stare. In secondo luogo, da qualche tempo e comunque dopo la tragedia di Mattmark, i tempi sono mutati anche per la Svizzera. I suoi rapporti con i paesi stranieri, financo con i paesi di mei Terzo Mondo che molti svizzeri vedono cominciare immediatamente a sud delle Alpi — nella stessa Brianza, tanto per avere un riferimento \ geografico di precisa evidenza — devono atteggiarsi ed orientarsi in maniera nuova, con un tocco di maggiore arrendevolezza e condiscendenza. Naturalmente, non riesce facile mutare d'un tratto il genere e la qualità dell'approccio con gli stranieri inferiori, sicché può anche accadere che le manifestazioni di insolenza perdurino: ma l'indirizzo di fondo è aperturista, per usare una parola che ha in questo caso un significato programmatico preciso. Come fatto specifico, del resto, i grandi svizzeri interessati ai larghi commerci si rendono conto che e necessario superare la sfavorevole condizione in cui si trova il loro paese nelle quotazioni politiche mondiali, dopo la gaffe, per chiamarla così, del rifiuto a versare la modesta somma di ottanta milioni di dollari alla World Bank's International Development Agency. Governo e Parlamento avevano approvato lo stanziamento, ma un referendum promosso dallo xenofobo deputato di Zurigo Jacob Schwarzenbach lo respinse a larga maggioranza nello scorso mese di giugno. «Questo è un voto che ci peserà gravemente sulle spalle», deplorò il Journal de Genève, e La Tribune de Genève candidamente diagnosticò «un aspetto egoistico e isolazionistico nel carattere degli svizzeri». Con apprezzabile obbiettività, il ministro degli Esteri Pierre Graber riconobbe che il risultato del referendum corrispondeva perfettamente ad un sentimento di massa: «Non è cosa di una ristretta cerchia di oppositori intellettuali. Gli aiuti all'estero sono e rimangono un argomento molto impopolare». Commentò Time: « Non è una scoperta per tutti quelli che conoscono il pensiero ossessivo dominante di questo paese, dove il denaro è sublimato in un codice che può infliggere pene maggiori per un conto di albergo non pagato che per una violenza carnale». Quello che la Svizzera ha bisogno di superare è dunque l'isolamento dei ricchi circondati dai poveri, dei quali i ricchi hanno però bisogno. L'andamento dell'economia lo impone ed un più largo respiro è necessario per frenare la crisi di recessione. Appunto a questo scopo la Svizzera ha accettato di partecipare alla quinta conferenza di vertice dei Paesi non allineati, in corso a Colombo, nello Sri-Lanka (ex Ceylon). I convertiti Quando la decisione fu presa, si temè per la sorte della tradizionale neutralità elvetica. I paesi «non allineati » si sono più volte schierati in un campo ben determinato, che ai neutrali veri potrebbe anche non convenire. Ma in una polemica che invase larga parte della stampa fu risposto che a Colombo la Svizzera è presente solo come paese invitato, al pari della Svezia, della Finlandia, dell'Austria, tutti Stati formalmente neutrali. Nulla sarà pertanto compromesso, e qualche cosa forse guadagnato. «Il nostro paese — ha scritto l'autorevole Georges Plomb— è oramai risoluto a seguire in tutte le sedi internazionali lo sviluppo dei rapporti Nord-Sud fra paesi ricchi e paesi poveri. E c'è di più: i Paesi non allineati appartengono in maggioranza al Terzo Mondo. Con l'andare degli anni sono diventati partners non trascurabili dell'economia elvetica. Il venticinque per cento delle nostre esportazioni vi sono dirette, e il saldo della bilancia commerciale e della bilancia dei pagamenti ci è largamente favorevole. In breve, le relazioni con quella parte del globo esigono ùa parte nostra un'attenzione sostenuta ». Così si arrivano a capire molte cose. Si parte da lontano, da Mattmark, si fa centro a Seveso per un nuovo tipo di rapporto con i subordinati, e finalmente si approda nello Sri-Lanka, alla ricerca di clienti sempre migliori. Vittorio Gorresio