Il nostro Stato di Carlo Casalegno di Carlo Casalegno

Il nostro Stato di Carlo Casalegno Il nostro Stato di Carlo Casalegno I rimorsi dell'uomo bianco Gli inviti rivolti da forze politiche e giornali al nostro governo perché segua con attenzione e simpatia la conferenza degli ottantacinque Paesi «non allineati» in corso a Colombo, sono ragionevoli, e forse superflui. Il dialogo tra «il Nord e il Sud del mondo» è, per l'avvenire dell'umanità intera, un tema importante quanto la ricerca di una diga all'estendersi incontrollato della minaccia atomica. Nessuno può rimaner sordo alle voci del miliardo e mezzo di uomini rappresentati (bene o male) da quelle ottantacinque delegazioni: sviluppo inarrestabile della popolazione, povertà crescente e disperazione formano una miscela esplosiva, che a breve scadenza può far saltare gli attuali e precari equilibri. La richiesta deU'Unità perché l'Italia sviluppi una presenza più attiva e più autonoma nel Terzo e nel Quarto Mondo, seguendo in qualche modo l'esempio della Jugoslavia, sopravvaluta forse le possibilità e i mezzi del nostro Paese (e magari copre il proposito di allentare i nostri rapporti con l'Occidente, di spostarci verso il neutralismo titoista); ma non è priva di un certo realismo. Delle ex potenze coloniali, l'Italia è probabilmente la meno sospetta e temibile agli occhi del mondo decolonizzato: Roma può prendere qualche iniziativa utile, nel Mediterraneo e anche in settori più lontani. Ci sembrano invece lontane dalla realtà, intollerabili e soprattutto pericolose alcune idealizzazioni, che abbiamo letto e ascoltato, della conferenza di Colombo; alcune interpretazioni faziose dei valori politici, ideali e morali rappresentati da quegli ottantacinque Paesi; alcuni giudizi temerari sulle rivendicazioni dei «non allineati» e sul dovere dell'Occidente di ascoltare il Verbo predicato in quell'isola lontana. Siamo alle solite. Per certi «progressisti» europei, l'esercizio dello spirito critico diventa illecito co- me segno di nostalgie imperialistiche e di tendenze reazionarie, di fronte ai convegni di popoli poveri, non bianchi e da poco decolonizzati. Noi uomini bianchi, contaminati dalle colpe del colonialismo, dovremmo soltanto ascoltare, coltivare i nostri rimorsi, e tacere. E' una posizione antistorica e illogica, che non serve alla pur necessaria collaborazione tra Paesi industrializzati e Paesi sottosviluppati, e che conduce a errori politici. Gli orgogliosi pregiudizi alla Kipling sono morti e sepolti; ma rinnegarli non significa riconoscere ai « non allineati » il ruolo, cui pretendevano quando vent'anni fa incominciarono ad organizzarsi, di « coscienza morale del mondo ». Trent'anni dì decolonizzazione hanno dimostrato, se mai, che tutti i popoli sono eguali; e che gli errori delle nazioni « nuove » possono meritare delle attenuanti, non l'assoluzione. Dai delegati di Colombo — si tratti degli argentini, degl'indiani, dei marocchini o degli ugandesi — non abbiamo lezioni morali da imparare. Non basta essere poveri o avere la pelle scura per rispettare la « dichiarazione universale dei diritti dei popoli », solennemente approvata con la Carta di Algeri. Noi europei abbiamo offeso quei diritti per secoli (e alcuni continuano a infrangerli: si pensi a certe nazionalità sotto il dominio sovietico). Ma notizie su offese più recenti, e di cui gli europei sono incolpevoli, possono essere date dai cambogiani e dai curdi, dagli eritrei e dai sahariani, dai nubiani e dai libanesi. A meno che, naturalmente, anche la tragedia del Libano non sia imputata con il solito semplicismo tutt'intera alle losche manovre dell'imperialismo americano. Qualche editorialista (non del pei) lo ha ripetuto in questi giorni, dimenticando che nessun intrigo della Cia o del Kgb potrebbe spingere gli arabi a massacrarsi fra loro con tanta disperata ferocia. Ai « non allineati » di Colombo auguriamo di poter prendere misure concrete ed efficaci per la guerra contro la miseria, ed anche per una miglior difesa dell'autonomia economica. Non riusciamo ad entusiasmarci per l'ambizioso progetto di dar vita a un'informazione « diversa e decolonizzata » contro il monopolio occidentale della stampa: non basta coalizzare una cinquantina di dittature, dall'Argentina all'Iraq, per battere il New York Times. E diffidiamo degli accordi politici che riusciranno a concludere: stando alle prime indicazioni, dovrebbero rallegrare soltanto chi pensa che l'Occidente debba macerarsi in sentimenti di colpa e incassare. Pare, infatti, che sarà rinnovata la solita condanna d'Israele e del Sudafrica; che s'invocheranno misure di riduzione degli armamenti, dimenticando il crescere delle tensioni proprio tra Paesi poveri; e che si chiederà che gli Stati Uniti abbandonino la base di Diego Garcia, per fare dell'Oceano Indiano un lago di pace. E' giusto: soltanto gli americani sono imperialisti; sui fucili russi e cubani fioriscono i garofani del progresso.

Persone citate: Diego Garcia, Kipling, Quarto Mondo