Sui battelli della morte di Clemente Granata

Sui battelli della morte Bandiere ombra nelle Marine mercantili Sui battelli della morte La vedova d'una vittima della Seagull ha denunciato la piaga della schiavitù moderna: i marittimi assoldati senza alcuna garanzia da armatori pirati - Vecchie "carrette" (il 41% del totale dei naufragi) compongono la flotta che batte bandiere di comodo - Si conosce il fenomeno in superficie, nessuno arriva ai veri responsabili (Dal nostro inviato speciale) Genova, 12 agosto. Con quella borsa appesa al braccio, i capelli grigi raccolti dietro la nuca, gli occhi miopi nascosti da spesse lenti, sembrava una tranquilla pensionata in vacanza. Ma dietro quell'aspetto nascondeva una volontà e una caparbietà non comuni. Rajna Junakovic è stata la vera protagonista del processo contro i proprietari della «Seagull» naufragata con 30 persone nel febbraio di due anni fa. La «Seagull» era una «carretta» battente «bandiera-ombra», una delle tante che solcano i mari senza garanzie di sicurezza, in condizioni igieniche disastrose con un carico di gente raccogliticcia e mal pagata. Quotidianamente nel mondo ci sono battelli adibiti al trasporto di merci, che rischiano la tragedia della «Seagull» e a volte la tragedia si consuma. Ma l'eco è subito assorbita dal muro dei complici silenzi. Per la «Seagull» è stato diverso. La sua vicenda di morte è giunta in Tribunale per le pazienti indagini dei magistrati Marvulli e Cascini, e la tenacia di quella donna jugoslava, moglie del marconista Frane, scomparso nel naufragio. Si è messa in contatto con i parenti delle vitiime sparsi ovunque, ha raccolto documentazioni importanti, ha dato un prezioso impulso all'indagine penale. Una breve inchiesta sulla «condizione umana» dei marittimi parte dunque da una aula del Tribunale genovese dove si è svolto un processo sotto certi profili eccezionale. E ci si scontra subito con una realtà spietata, facilmente definibile nei suoi aspetti generali (le condizioni di vita disumane, le paghe basse, la morte sempre accanto), molto meno, quando si tenta di approfondire il fenomeno. In effetti è arduo, a volte impossibile, indagare sui protagonisti, su chi regge le fila del losco traffico. Ci si perde spesso nel labirinto dei nomi fittizi, delle società fittizie, che servono da comodo e solido paravento. S'incontrano solo figure di secondo piano: i sensali. L'«universo» delle «bandiere-ombra» appare molto complesso ed è opportuna una distinzione preliminare, come mi dicono due sindacalisti, Giorgi della Film-Cisl e Damano della Film-Cgil. La «bandiera-ombra» di «comodo» o di «convenienza» non è necessariamente sinonimo di sfruttamento del lavoratore. Ci sono armatori che ricorrono alla copertura dei vessilli di Panama, Liberia, Honduras, Cipro e Oman esclusivamente per evadere il fisco. Ed è questo lo scopo per cui il norvegese Erling Naess escogitò nel lontano 1920 il ricorso alla bandiera di convenienza. Panama e gli altri Stati pretendono soltanto il versamento di una somma relativamente modesta all'atto dell'iscrizione della nave nei rispettivi registri e del rinnovo annuale della concessione (la cifra rimane inalterata per un ventennio). I vantaggi sono evidenti. Le società armateci non sono tenute al pagamento di altre somme nel momento in cui confluiscono i capitali e quando avviene la ripartizione degli utili. A questo punto, protettì~da norme generose che permettono di compiere evasioni tali da assicurare ampi profitti, liberi di disporre dei beni senza particolari intoppi burocratici, gli armatori dimostrano una notevole disponibilità nei confronti del sindacato. Non è stato sempre così. L'Itf (International Transport Workers Federation), l'organismo sindacale sorto per tutelare i diritti dei marittimi in quelle situazioni, ha dovuto sostenere dure lotte, ma ora è riuscito ad imporsi quasi generalmente. Giorgi, che rappresenta l'Itf in Italia, afferma ad esempio che nelle navi di società multinazionali sono rispettati i contratti collettivi dei Paesi di provenienza dei marittimi, o, se i Paesi di provenienza sono diversi, «il trattamento è riferito allo "standard" medio internazionale». C'è poi la seconda categoria delle navi battenti bandieraombra. Si tratta appunto dei «battelli della morte» come la «Seagull», dove, oltre le gravi infrazioni di carattere fiscale, si riscontra la violazione quasi sistematica delle norme di sicurezza e dei contratti collettivi, Il trattamento 6 imposto in modo unilaterale ai membri dell'equipaggio e a volte non sono rispettate neppure le clausole promesse, di per sé già vessatorie. Il marittimo non ha scelta: o accetta o sbarca al primo porto accollandosi le spese del ritorno. Popola quelle navi una folla cosmopolita proveniente da molti Paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina. Ci sono pure europei: greci, jugoslavi, turchi, di recente anche italiani colpiti dalla crisi dei trasporti marittimi (si calcola che i nostri connazionali costretti a subire i contratti-capestro siano circa cinquemila). E' gente che di solito non ha molta dimestichezza con la nave, eppure viene adibita anche a mansioni delicate con grave pregiudizio del buon esito del viaggio. I centri di raccolta dove operano gl'intermediari sono molti. In Italia funzionano a Venezia, San Benedetto del Tronto, Torre del Greco e Genova. Nel capoluogo ligure i contatti con i sensali sono presi in piazza De Ferrari e soprattutto in piazza Banchi, uno stretto, caratteristico rettangolo dove un tempo si affacciavano i locali della «Borsa». Sullo sfondo c'è un'artistica chiesa e lì accanto avviene la contrattazione. Tutto si svolge in modo molto discreto al mattino presto. Marittimi da mesi senza imbarco e che trovano un occasionale rifugio pressa la «Stella maris», un istituto assistenziale di piazza De Negro, proprio di fronte al porto, accettano in genere qualsiasi imposizione. Il prezzo minimo per ottenere un imbarco è 50 mila lire e può arrivare sino ai primi due mesi di paga. Il marittimo deve trasferirsi in un'altra città e mettersi in contatto con una seconda persona che gli indica il porto d'imbarco. Incertezze, pericoli, incognite accompagnano passo per passo la sua vita. II fenomeno, come ho detto, si conosce nei caratteri generali, ma mancano indagini approfondite che permettano di delinearlo in tutti i suoi aspetti. Si calcola che circa un quarto del naviglio mercantile mondiale si trovi sotto il monopolio degli armatori pirata. Certi dati sono agghiaccianti. Francesco Lo Monaco, un ex comandante di nave con «bandiera-ombra», che si batte da tempo per limitare il triste fenomeno, mi mostra un documento redatto in Inghilterra dove risulta che i naufragi delle navi-pirata dovuti alle obiettive condizioni d'insicurezza e all'imperizia degli equipaggi, sono in rapida ascesa. Nel 1971 i battelli con bandiera-ombra inabissatisi costituivano il 31,1 per cento del totale mondiale dei naufragi; tre anni dopo la percentuale era salita a quota 41. Le difficoltà che s'incontrano nel combattere gli armato¬ ri fantasma sono parecchie e a volte scoraggiano anche i più volenterosi. I sindacati ammettono che le carcasse tipo «Seagull» troppo spesso riescono a sfuggire al loro controllo. Occorrerebbero denunce puntuali da parte degli equipaggi, ma sono rare. Il timore di perdere il lavoro è una forte remora. Funzioni ispettive sono affidate alle «Capitanerie di porto», ma sarebbero necessari organici più rilevanti (a Genova ad esempio ci sono soltanto tre ufficiali che devono affrontare mille incombenze). Inoltre l'articolo 19 della Convenzione di Londra del '60 appare piuttosto restrittivo perché richiede per l'ispezione l'esistenza di «validi motivi». Al comandante sovente basta esibire un certificato d'idoneità e sicurezza formalmente in regola (rilasciatogli magari da compiacenti funzionari del registro dov'è iscritta la nave) per sbarrare la strada a un controllo approfondito. Ora si spera nella magistratura. A Genova il procuratorecapo dottor Grisolia e i sostituti Carli e Marvulli hanno dichiarato guerra a tutte le «bandiere-ombra». Dicono che le nuove disposizioni valutarie e fiscali forniscono strumenti efficaci. Da altre parti (ed è un discorso che, pur con profili diversi, sentiamo fare da De Lucchi della TJimUil, all'«Associazione comandanti di nave» e all'«Associazione liberi armatori») si sostiene che il problema non può essere risolto con il ricorso esclusivo all'arma della repressione. Contro le «bandiere-ombra», si sente dire, occorre «un'adeguata politica marinara che sinora è mancata». E le proposte vanno da un rilancio dell'attività cantieristica, al potenziamento del settore turistico, all'analisi seria e attenta delle cause della crisi del settore armatoriale. «Gli armatori — si afferma — sarebbero ben lieti di commettere, gestire, fare tutte le navi in Italia; bisogna dargliene la possibilità». Discorsi probabilmente validi, ma adatti ai tempi lunghi. Ora ci sono problemi drammatici e urgenti e forse soltanto la legge penale può risolverli. In mare troppa gente è in pericolo. Clemente Granata

Persone citate: Carli, Cascini, De Lucchi, Erling Naess, Francesco Lo Monaco, Grisolia, Marvulli, Rajna