Vogliono 5 miliardi di riscatto per un possidente sardo rapito di Filiberto Dani

Vogliono 5 miliardi di riscatto per un possidente sardo rapito Una delle più alte cifre chieste per un ostaggio Vogliono 5 miliardi di riscatto per un possidente sardo rapito E' Giannello Tamponi, 37 anni, sequestrato 60 giorni fa tra Olbia e il Golfo degli Aranci - I familiari dicono : "Siamo disposti a tutto" - Chiesto denaro alla famiglia di un rapito per restituire la salma: aveva versato mezzo miliardo per la sua liberazione (Dal nostro inviato speciale) Olbia, 11 agosto. Una cifra da capogiro: si dice 5 miliardi di lire. E' il prezzo della vita di Giannello Tamponi, il possidente gallurese di 37 anni, sequestrato dai banditi 60 giorni fa tra Olbia e Golfo Aranci. I familiari smentiscono di aver ricevuto la richiesta di un così astronomico riscatto, ma, si sa, i familiari smentiscono sempre per timore di danneggiare le trattative con i rapitori. Se la cifra dei 5 miliardi è esatta, essa è la più alta che sia stata chiesta in Sardegna per un riscatto. Sembra che i banditi l'avessero inizialmen- te fissata in 3 miliardi, ma evidentemente ci hanno ripensato, puntando sul fatto che il padre del rapito, Antonio, è un facoltoso proprietario terriero. Le aree di Golfo Aranci sono in gran parte sue, ha interessi in un grosso giro di attività immobiliari, è, insomma, uno dei maggiori esponenti del mondo economico sardo. Chi lo conosce bene dice: «E' un uomo che ha certamente ammassato una considerevole fortuna, ma non al punto di poter disporre di tre o cinque miliardi, anche spogliandosi di ogni suo avere, ipotecando proprietà, bussando a quattrini. Quei banditi sono dei folli». Giannello Tamponi, laureato in economia e commercio, sposato, due figli, è stato rapito il 14 giugno mentre rientrava in macchina da Punta Marana, nel golfo di Marinella, alla villa paterna di Golfo Aranci. Quattro uomini gli hanno sbarrato la strada costringendolo, armi alla mano, a trasbordare su un'altra macchina. L'allarme è scattato mezz'ora dopo, poliziotti e carabinieri sono partiti alla caccia dei banditi, ma la battuta non è servita a niente. A sei giorni dal rapimento Giannello Tamponi ha scritto al padre. E' una breve lettera nella quale dice di stare bene, di non preoccuparsi e di chiedere alla polizia di sospendere ogni forma di indagine (anche questa notizia è stata smentita dai familiari, ma confermata da altre fonti attendibilissime). Adesso i giorni sono diventati 60, nella villa di Golfo Aranci c'è un viavai di gente, forse una mano fra tante ha lasciato cadere il biglietto col prezzo del riscatto. In Sardegna, quando una persona viene sequestrata, sono d'abitudine i familiari che devono preoccuparsi delle trattative. Difficilmente i banditi si fanno vivi per primi. Essi attendono nei loro rifugi di montagna di avere notizie dagli «amici» che hanno a valle, personaggi insospettati, i quali hanno l'incarico di allacciare i contatti. Ciò che, appunto, sembra essere avvenuto per il sequestro di Giannello Tamponi. I familiari del rapito, chiusi in un comprensibile riserbo, rifiutano di incontrarsi con i giornalisti. Hanno fatto soltanto sapere di essere «disposti a tutto» pur di far tornare a casa il loro congiunto. Ma hanno aggiunto: «Chi lo tiene prigioniero deve però considerare le nostre reali possibilità». Non c'è soltanto il riscatto per i vivi, c'è anche quello per i morti. A Tortoli, piccolo centro del Nuorese, la famiglia dell'imprenditore Attilio Mazzella, rapito il 9 luglio 1975, sta trattando con i banditi per riavere la salma del loro congiunto. Tra le tante brutte storie di rapimenti, questa è certamente tra le più brutte e inumane. Racconta Giorgio Mazzella, 27 anni, figlio dell'industriale: «Una cosa allucinante. Ci siamo rovinati per pagare il riscatto a rate, mezzo miliardo di lire, poi, ad un anno dal sequestro, i banditi si sono fatti vivi con una telefonata: suo padre è morto, un colpo al cuore, se vuole il suo cadavere prepari altri soldi, le faremo sapere quanti. Lì per lì sono rimasto come paralizzato, ma mi sono ripreso, ho cercato di sapere qualcosa di più, invece la telefonata è stata interrotta». Nessun dubbio che all'altro capo del filo ci fossero gli autori del rapimento. «Sono stati in grado di indicare le quattro parole d'ordine che hanno sempre adoperato per fissare le modalità di pagamento del riscatto», spiega Giorgio Mazzella. Questa telefonata è arrivata meno di due settimane fa. Ce n'è stata una seconda. «I banditi, dice il giovane, mi hanno chiesto di confermare con un articolo di giornale la volontà della mia famiglia di recuperare, hanno detto proprio cosi, la salma del babbo. Ho subito provveduto a far pubblicare questo messaggio: "Siamo certi delle vostre parole e restiamo in attesa, col solito sistema, di ulteriori notizie che ci consentono di riavere il nostro caro". Da allora, ed è passata una settimana, non si sono fatti più sentire. Io, comunque, sto sempre appiccicato al telefono». Attilio Mazzella, nativo di Ponza ma da sempre residente in Sardegna, fu rapito più di un anno fa nella Barbagia di Nuoro, tra Mamoiada e Orgosolo. Era in auto, alla cui guida si trovava un sardo che aveva funzioni di guardia del corpo perché in un recente passato l'imprenditore era stato destinatario di lettere minatorie. Ad una curva, l'agguato. Due banditi sbucarono da un cespuglio, intimarono l'«alt», spararono una fucilata quando l'autista tentò un'inutile fuga con un colpo di acceleratore. . Gigina Mazzella, la moglie, dice fra le lacrime: «Non auguro a nessuna moglie di passare attraverso un simile inferno. Prima il rapimento, poi l'angoscia per trovare i soldi, adesso la terribile notizia della morte di Attilio. E come se non bastasse, l'indegno commercio del suo povero corpo». Attilio Mazzella era comproprietario di un villaggio turistico ad Arbatax, titolare di una catena di piccole imprese commerciali, industriali ed edili che davano lavoro a qualche centinaio di persone. «Quarant'anni di lavoro andati in fumo», commenta affranta la donna. Il mezzo miliardo di riscatto ha praticamente costretto la sua famiglia a chiudere bottega, ma il rammarico non riguarda il denaro per quello che doveva servire. «I soldi, dice Gigina Mazzella, erano importanti soltanto per riavere tra noi Attilio, un uomo che ha lavorato tutta una vita, che era stanco, ammalato di diabete». Ora, i banditi ne chiedono altri: per restituire un morto alla pietà dei vivi. Filiberto Dani

Persone citate: Attilio Mazzella, Gigina Mazzella, Giorgio Mazzella, Mazzella, Tortoli