l gravi pericoli delle escursioni in alta montagna

l gravi pericoli delle escursioni in alta montagna l gravi pericoli delle escursioni in alta montagna In questi ultimi anni, in alta quota, le comitive si son fatte più frequenti e numerose: sta venendo di moda il trekking, che vuol poi dire andare — scomodamente, tra molte difficoltà e qualche pericolo — in spedizione, in lunga traversata, a quote dai quattromila ai seimila circa. Per il vero trekking (che, in pratica, è un'escursione a quote molto più elevate ma con minori difficoltà tecniche che non quelle delle nostre Alpi) occorrono montagne come quelle del Nepal o delle Ande o del Karakorum. Ed è proprio questa assenza di particolari difficoltà di tecnica alpinistica che fa sembrar l'impresa apparentemente facile, ancor «tollerabilmente audace», quasi quasi accessibile tramite agenzia di viaggi. E invece — secondo gente esperta come Rivolier (il me dico francese delle spedizioni polari e himalaiane) o Courrèges (il biologo del laboratorio di igiene pubblica di Katmandu) — per imprese del genere occorre assolutamente esser sicuri del proprio organismo: e non solo dal punto di vista fisico (indispensabili, quindi, tutti i controlli del livello di efficienza dei diversi apparati, soprattutto quello della tolleranza alle basse disponibilità di ossigeno) ma anche psichico. Il contrasto tra le normali e molto cittadine abitudini di vita e quelle di Paesi geograficamente inospitali, tra gente sconosciuta dalla incomprensibile lingua, lontani giorni e giorni di duro cammino da quel mondo in cui si è nati. Occorre partire già ben allenati e dimagriti da lunghe marce in montagna, capaci di ben tollerare fame, sete e freddo, di dormire sul duro e senza ripari, e abbronzati dagli ultravioletti. Arrivati sul luogo, occorre ulteriormente acclimatarsi e cioè (ma son ben pochi che lo fanno perché i giorni disponibili sono sempre scarsi) sostare almeno 2-3 giorni ogni 1000 metri di quota, dai 3000 in su. E' il sistema più efficace per evitare il malessere generale, la nausea, la sensazione di spossatezza, l'insonnia, l'agitazione psichica che spesso tormentano e talvolta sono prodromo di vere e anche tragiche crisi di mal di montagna. La difficoltà maggiore, però — anche dal punto di vista organizzativo — è rappresentata dalla disidratazione. Mangiare, ovviamente, è importante (pochissimi i grassi, preferibili le proteine, carne, formaggi e latte in polvere, ma soprattutto i carboidrati, pane e riso precotti, zucchero, marmellate, frutta secca) anche se, in pratica, in questi casi, il bilancio alimentare è passivo e il soggetto diminuisce di peso. Ma, lassù, si perde molto più peso per la disidratazione che non per il bilancio calorico negativo. La difficoltà organica fondamentale dell'alta quota (e quindi del trekking), oltre a quella dell'ipossia, è proprio quella della disidratazione conseguente alla sudorazione (sotto i vestiti), alla perspiratio insensibilis e alla perdita di acqua col respiro (aria secca). L'organismo — anche magro in partenza — ha sempre qualche scorta di grasso utile a compensare l'insufficiente alimentazione ma non ha mai scorte di acqua, alimento difficilissimo da trovare, a meno di far sciogliere la neve. Ma quanto tempo e quanto alcol solido ci vogliono per ottenere i tre (se non più) litri di acqua necessari, ogni giorno, per persona? Forse è per questi motivi che la massima parte delle persone, al trekking, preferisce ancora la mezza montagna, forse meno sportiva ma quasi sempre con un buon bar a due passi. Vittorio Wiss Prof. Medicina dello sport Università Torino

Luoghi citati: Katmandu, Nepal, Torino