La rivoluzione di Giuseppe Galasso

La rivoluzione DALL' ILLUMINISMO A MAO La rivoluzione « Rivoluzione » è da due secoli — dal tempo della Rivoluzione francese — una delle parole mitiche e trascinanti del lessico politico mondiale, il simbolo di una delle maggiori idee-forza del nostro tempo. Forse anche per questo essa ha costituito assai spesso, negli ultimi due o tre decenni, l'oggetto di uno studio specificamente inteso a fissare la storia stessa del termine, a ricostruire il significato e le implicazioni politiche e sociali volta per volta attribuiti al concetto di rivoluzione, che è uno di quelli su cui il pensiero politico europeo è tornato con più frequenti innovazioni. La storia tracciatane dal Lenk nel volumetto pubblicato tre anni fa a Monaco e ora fatto tradurre da Laterza (K. Lenk, Teorie della rivoluzione, Bari 1976, p. 212, lire 2800) è uno di questi studi e, per la verità, riesce ad accoppiare il pregio della brevità con quelli della informazione esauriente e dell'esposizione chiara ed acuta. Detto questo, bisogna, tuttavia, aggiungere subito che le teorie della rivoluzione di cui Lenk si occupa sono quelle sviluppate nell'ambito del pensiero socialista, e anzi, più propriamente, nell'ambito del pensiero marxista. Sì, Tocqueville compare nel primo capitolo e un accenno assai veloce è fatto nell'introduzione al pensiero illuministico e a Hegel, ma non si tratta di nulla di realmente diverso da un cenno. Il pensiero democratico-radicale è qui del tutto assente: tanto per fare un nome solo, di quelli più familiari a noi italiani, ma di portata e significato tutt'altro che soltanto nazionali, il nome di Mazzini nella ricostruzione di Lenk non figura per niente. Nell'ambito stesso del pensiero socialista la prevalenza è data, come si è detto, al pensiero marxista, ma si tratta di una prevalenza così netta e ampia da confermare incontestabilmente nell'opinione che Lenk avrebbe fatto assai meglio a dire esplicitamente nel titolo che è al pensiero marxista che la sua ricostruzione intendeva riferirsi. Se, invece, si dovesse pensare a una riserva mentale per cui concezione marxista della rivoluzione e concezione della rivoluzione tout court si identificherebbero, allora quello che, così com'è, è un saggio pregevole dovrebbe apparire come un lavoro insufficiente. Nell'ambito del pensiero marxista il saggio di Lenk è, comunque — lo si è già detto — esauriente ed acuto. Il punto obbligato di passaggio era, naturalmente, il pensiero dello stesso Marx. Lenk rileva giustamente che le matrici del concetto marxiano di rivoluzione sono nella liquidazione di quello che a Marx, nella forte carica realistica e storicistica del suo pensiero, appariva come la distorsione ideologica più grave di un movimento politico, in generale, e del movimento socialista, in particolare, ossia il cosiddetto « utopismo ». Forse Lenk, non soffermandosi abbastanza sulla necessità di storicizzare l'utopismo non in generale, come fa Marx, ma nel particolare delle società e delle culture in cui esso volta per volta è nato, si lascia sfuggire uno degli elementi limitativi, poi, della stessa concezione marxiana della rivoluzione, che Marx identificava senza residui con la nozione di rivoluzione sociale, e cioè, per quanto lo riguardava, di rivoluzione proletaria. * ★ Ma egli riassume con grande chiarezza le cinque condizioni fondamentali, secondo Marx, perché la rivoluzione sociale si abbia: l'esistenza di un soggetto (classe) storico specifico; un carattere internazionale; la preesistenza di una rivoluzione politica ad opera della borghesia; una crisi economica mondiale; un grado relativamente alto di sviluppo industriale. Solo queste cinque condizioni potevano far sì che il contrasto tra forze produttive e rapporti di produzione, ossia tra concentrazione del capitale in mani private e carattere sempre più sociale assunto dalla produzione, così come la struttura antagonistica di classe propria della società borghese e le necessità organizzative della classe proletaria assumessero la maturità storica indispensabile perché si potesse parlare di inevitabilità della rivoluzione stessa. Per queste ragioni era ovvio che a Marx lo scoppio della rivoluzione sembrasse le mille miglia lontano dal poter essere preparato a tavolino o essere determinato dalla volontà soggettiva di singoli o di gruppi. Era vero, invece, per lui che la rivoluzione si potesse ade¬ guatamente studiare come tema di grande azione politica e di vita economico-sociale proprio perché non si trattava di un fatto casuale. L'analisi delle condizioni economiche, sociali e culturali veniva così a costituirsi come una componente essenziale dell'attività di una classe politica moderna. Per Lenk, però, più che di una concezione marxiana della rivoluzione è da parlarsi di concezione marxengelsiana, dato che egli tra le posizioni dei due dioscuri del marxismo non fa alcuna distinzione: il che, in un saggio dalle rapide dimensioni come questo, si può anche consentire. Le distinzioni vi sono, invece, e — come era naturale — numerose, nella parte dedicata alla discussione tra Marx, da un lato, e Bakunin, Proudhon, Lassalle e altri fino alla Comune di Parigi e, poi, al periodo della Seconda Internazionale. Si tratta della parte forse migliore della sua esoosizione. L'antitesi principale fra prosecutori e interpreti di Marx si venne a fissare, come è noto, nell'alternativa rivoluzione o riforme. Non si può dire, per la verità, che le posizioni riformistiche (come chiaramente appare dalle pagine e dalle notazioni dedicate a Bernstein) riscuotano in Lenk grandi simpatie. Tuttavia, egli ha ragione di sottolineare in tutta la sua portata la debolezza positivistica della cultura e del tipo di analisi propri del socialismo riformistico negli ultimi decenni del secolo scorso e fino alla prima guerra mondiale. La Luxemburg lo aveva egregiamente rilevato, scrivendo che, « dando l'addio alla dialettica e abbandonandosi all'altalena dei pensieri — "da una parte, dall'altra parte; sì, ma; benché, eppure; più, meno " — Bernstein cade per forza nel modo di pensare storicamente condizionato della borghesia al tramonto ». Il tramonto della borghesia si esprimeva, infatti, anche nell'abbandono del vigoroso pensiero romantico e idealistico che nella prima metà del secolo XIX aveva accompagnato una delle epoche più creative della civiltà europea. La logica aggregativa del discorso positivistico aveva, tuttavia, una sua giustificazione e un suo fondamento come trasposizione, sia pure indebita, di un procedimento empirico di cui la prassi democratica non può fare a meno. L'approssimazione, che è difetto grave nella logica storica e nell'analisi politica, ha, invece, le sue buone ragioni nella costruzione quotidiana di posizioni più larghe e dinamiche. Il rapporto tra empirismo (come tipo logico) e democrazia (come regime e come prassi) è un problema che meriterebbe da solo una trattazione a parte. L'identificazione della cultura empirico-positivistica come sola cultura fondante di un regime di autentica democrazia e l'individuazione di questo tipo di cultura come ragione specifica e sufficiente delle salde radici della democrazia nel mondo anglosassone sono una ingenuità di studiosi europei (e specialmente, purtroppo, italiani) del dopoguerra, neofiti, e spesso maniaci, dell'anglo-americanismo. Ma il problema, se correttamente impostato, è un problema autentico e importante. Lo si vede negli svolgimenti non più democratici che il marxismo riceve con Lenin. A riguardo del leninismo Lenk mostra chiaramente di condividere il giudizio di Trotskij, ma ne dà una formulazione indubbiamente perspicua ed equilibrata. « Non si può certo negare — egli scrive — che Lenin non abbia elaborato la concezione più adatta a garantire la presa del potere da parte dei bolscevichi, anche se al prezzo altissimo di offrire allo stalinismo burocratico la possibilità di richiamarsi al " leninismo ", epurando l'apparato di partito. Grazie alla concezione di Lenin fu possibile vincere la rivoluzione, anche se essa servì poi a liquidarne i frutti. « Che Lenin stesso fosse già " stalinista ", è pura leggenda. Bisogna però ammettere che i principi del partito di tipo nuovo, nel momento stesso in cui la rivoluzione aveva vinto, furono ipostatizzati in un feticcio astratto ». Trotskij diceva perciò che nel partito bolscevico i metodi rifacentisi al leninismo « condussero l'organizzazione a sostituirsi al partito stesso, il comitato centrale all'organizzazione del partito ed infine un dittatore al comitato centrale »; e che inoltre essi « condussero fino al punto in cui i comitati producono le " linee " e di nuovo le sopprimono, mentre " il popolo resta muto "». Che tutto ciò basti, però, a ritenere che la teoria trotskista della rivoluzione sia più valida di quella leninista in quanto più democratica è tutt'altro discorso. Lenk fa bene a riassumerla da un altro punto di vista, ricordando che «caratteristica della rivoluzione permanente, così come Trotskij la proponeva, è l'idea che la società non può trovare pace finché la sua trasformazione socialista non sia stata compiutamente realizzata ». Ma — vien fatto di osservare — non è qui la radice di un nuovo utopismo o di un appena dissimulato e mascherato idealismo? E' un interrogativo, comunque, che Lenk non si pone neppure lontanamente. L'ultima frase del suo saggio (« Lo sviluppo di questa concezione va ricercato nella teoria della rivoluzione di Mao Tse-tung ») è una conferma dei suoi orientamenti, ma apre un altro e diverso problema. Giuseppe Galasso

Luoghi citati: Monaco