Libano: settecento i morti in tre giorni di "tregua,, di Mimmo Candito

Libano: settecento i morti in tre giorni di "tregua,, I combattimenti si estendono a tutto il Paese Libano: settecento i morti in tre giorni di "tregua,, (Dal nostro inviato speciale) Beirut, 7 agosto. Oggi è il giorno terzo della tregua numero cinquantaquattro. Dalle otto di giovedì mattino sono state uccise quattrocentosette persone, i feriti sono quasi il doppio; se si aggiunge la cifra presunta dei palestinesi ammazzati nella « liberazione » di Nabaa, i morti diventano settecento, i feriti un migliaio. Queste sono le tregue libanesi, aspettiamo senza illusioni la numero cinquantacinque. Oggi s'è sparato in centro, nella Banlieu Sud, a Tripoli, sulle montagne. Sono stati annunciati movimenti di truppe siriane nella zona di Aentura-Mtein, 30 chilometri a Nord-Est della capitale, la radio falangista denuncia un allargamento del conflitto con l'intervento di «volontari» iracheni a fianco dei fedayn. La Voix du Liban parla anche d'un intervento libico e sovietico in aiuto dei palestinesi. Sono solo voci, ma la guerra continua. Tutto come prima, come sempre? No. C'è un fatto nuovo, che è ancora piccola cosa ma che può avviare sviluppi interessanti: l'ex presidente musulmano Sahib Salam si è incontrato con il leader dei falangisti cristiani Pierre Gemayel, il rendez-vous s'è svolto nella sede dell'arcivescovado greco-ordotosso, ad AscRafie. «E' stato un successo — ha detto l'arcivescovo — Salam ha rotto una difficile barriera psicologica». As-Rafie è il quartiere dei cristiani, il caposaldo maronita in questi lunghi sedici mesi di guerra contro i palestinesi: la visita di Salam è una mano tesa. Ha detto l'ex presidente: «La divisione di Beirut e del Libano esiste, è ormai una realtà di fatto, demografica, geografica, psicologica. Dobbiamo avere allora il coraggio di parlare di riunificazione». Quasi in risposta a queste dichiarazioni, Kamal Jumblat, il leader dei musulmani progressisti, si recava all'ambasciata sovietica «per denunciare l'esistenza d'un complotto americano-israeliano, diretto a fare del Libano un Paese confederale a sistema cantonale, come quello svizzero». Kolailat, capo dei nasseriani, aggiungeva: «Si vuole togliere ogni spazio u una lotta per la trasformazione sociale del nostro Paese». Rifiutamo di andare oltre nella cronaca delle dichiarazioni politiche; ce ne sono d'ogni tipo, ma i leader di questo Paese non hanno alcuna credibilità. I balletti senza dignità di questi personaggi non meritano attenzione, di fronte alla tragedia reale della guerra e alla loro incapacità di trovare una via d'uscita. Il Libano non è più un problema libanese, e neanche arabo: quello che fanno Karame, Chamun, Frangie, Tueni, Eddè conta solo per quanto fa capire del ruolo che gli si sta facendo svolgere, ma sono figure oscure e senza storia. Il trasformismo di questa classe politica ha tutta la rozzezza del potere e l'ironia d'una impotenza ormai assoluta. Non contano nulla, non conta parlarne. Il futuro del Libano si sta decidendo nel delicato incastro degli equilibri tra Stati Uniti e Unione Sovietica: l'intervento armato siriano a fianco dei cristiani-conservatori e contro palestinesi e musulmani-progressisti può essere stato provocato anche dascelte di politica interna a Damasco, ma sicuramente trova concordanze con le linee americane d'una soluzione nel Medio Oriente, che vuole un Libano moderato e palestinesi sotto controllo. L'incendio provocato da lotte confessio¬ nali e interessi di classe s'è 01 mai allargato spaventosamente. A Beirut oggi ci sono tutti: arabi, statunitensi, russi. Forse gli unici a non esserci più sono proprio i libanesi, morti o scappati. Dal gran polverone delle dichiarazioni politiche e degli incontri dei leader locali si ricavano per ora questi dati: 1) la Siria ha ancora difficoltà, anche interne, a realizzare il suo progetto di normalizzazione; 2) l'ipotesi d'una spartizione del Libano riprende sostanza; 3) l'Unione Sovietica tenta di rimettersi in gioco, ma non riesce a decidere se Damasco l'ha mollata o no. Sono segni di una tendenza in corso, tutto sommato si può dare ragione a Jumblat quando dichiara: «La prossima settimana sar/ decisiva per le sorti del Libano». Un dato assai interessante di questa tendenza evolutiva è l'assoluto silenzio, da molti giorni ormai, d'ogni fonte palestinese: il dibattito all'interno dell'Olp è molto forte, ci assicurano fonti assai vicine sia ad Al Fatah che al fronte del rifiuto, bisogna attendere i risultati. Perché in Libano si sta decidendo, anzitutto, la sorte politica dei fedayn. La cronaca della guerra intanto continua, con le sue storie d'ogni giorno uguali, le tragedie del saccheggio, della violenza, dell'assassinio. Oggi il convoglio della Croce Rossa non è tornato a Tali Zaatar, né ci tornerà domani: troppo rischio. Hoeflinger, il delegato della Cri, ha chiesto alle parti in lotta di accordare lo sgombero di tutti i civili, feriti o no: ma non c'è stata risposta, se non quella delle bombe che continuano a cadere su quell'inferno. Nel nome di Cristo. Mimmo Candito

Persone citate: Fatah, Frangie, Kamal Jumblat, Pierre Gemayel, Sahib Salam, Tueni