Dentro il Libano in guerra di Mimmo Candito

Dentro il Libano in guerra VIAGGIO ATTRAVERSO IL FRONTE DA DAMASCO A BEIRUT Dentro il Libano in guerra Si avanza tra paesi devastati, su strade sconvolte dalle mine, in mezzo a profughi in fuga - Le campagne occupate dall'esercito siriano sono tranquille; gli scontri e la legge della giungla fanno strage nella capitale - La breve illusione delle tregue auto appiccicate di bimbi e vecchi. Mosche dappertutto. Masnaa è tre case gialle e un ufficio doganale. La coda delle vetture in sosta vi ha attirato banchetti di bibite e frutti cotti di sole, una minuscola folla si muove con fatica nel caldo spossante. I soldati siriani distribuiscono sorridendo le copie di un quotidiano di Damasco: il Tchrin. La Siria, ci dicono, sta facendo miracoli di relazioni pubbliche, tranquillizza, assiste, rassicura. Scomparsi confine e frontiera, qui conta ora la sterlina di Assad. Sulla piazzetta, in basso, è fermo un grosso carro armato; naturalmente, non dell'esercito libanese. Lasciamo la Siria per entrare nel nulla. Lungo alcuni chilometri, sulla nostra sinistra (e dunque per i libanesi in fuga) ragazzi accosciati al ciglio della strada offrono sigarette americane di contrabbando o sventolano mazzi di banconote da cambiare. Uomini e donne mostrano taniche di plastica colorata: vendono benzina, un prodotto che in Libano è praticamente introvabile. Lo hanno comperato per poche lire in Siria o « soffiato » con un tubo di gomma dal serbatoio di qualche auto. La carrozzabile numero Il nostro inviato si trova da tre giorni a Beirut, sul fronte più tormentato della guerra civile. In questo articolo egli racconta il viaggio avventuroso, che gli ha consentito di raggiungere la capitale libanese attraverso Damasco e la Siria. (Dal nostro inviato speciale) Beirut, agosto. Le lettere sono tutte a testa in giù, ma non è difficile ricostruire la frase: « Welcome to Lebanon ». Siamo al posto di frontiera, sulla strada che da Damasco scende fino a Beirut. Il tabellone, grande, azzurro, è sulla destra. Fino a qualche settimana fa doveva dare il benvenuto ai turisti, ora è soltanto l'immagine del suo Paese. Alla dogana, nessuno. Le garitte sono vuote, sporche. Il vento caldo che viene da Oriente scivola polveroso nella stretta corsia che doveva incanalare le auto in transito; a un muro giallo, scrostato, è incollata la faccia sorridente del presidente siriano Assad. Ma siamo in Libano. Ci saranno quaranta gradi, la tettoia è un breve refrigerio. Stiamo tentando di raggiungere Beirut, per duecento dollari abbiamo affittato l'auto di un vecchio pazzo che guida scalzo e canta nenie incomprensibili. Era una Mercedes panciuta, dopo 29 anni di vita gloriosa è un museo ambulante, che si regge con mille toppe angosciose. Speriamo di arrivare. Sono solo ottanta chilometri, ma c'è la guerra. Il paesaggio è fantastico, le rocce bianche scavate di nicchie antiche s'aprono su campi di ogni colore, greggi di pecore stente cuociono al sole, custodite da figure nere di pastori senza sesso ed età. Qui s'apre la valle del Bekaa, che supera le nuvole e cala fino al mare di Beirut. Era territorio libanese, ora vi sventola la bandiera siriana. Lontano, sulla destra, tra la paglia gialla centinaia di camions, cannoni, le tende d'un accampamento. Zona militare, ci dicono: proibito fotografare. Dentro l'esodo Mezzo chilometro a monte, c'era la frontiera siriana, quella delle carte geografiche, posto doganale di Jdeide, con ancora le vecchie iscrizioni coloniali in francese. La lunga coda di auto che li si blocca arriva fino a Masnaa; hanno quasi tutte la targa nera del Libano e i tetti affollati dì valigie, cartoni, materassi. Scappano dalla guerra. Sono facce distrutte dalla stanchezza, uno è liscia, le curve dolci. Si arrampica tra i cedri e s'apre poi su gole aride di terra rossa; le siepi ai lati spariscono presto. Passando, i cingoli dei tanks siriani hanno strappato solchi profondi sulla carreggiata: la Mercedes vibra e balza. Da qui è penetrata una delle colonne blindate che a giugno hanno invaso il Libano, i T-54, i T-56 e i T-62 puntavano su Beirut, trascinando alcune migliaia di uomini in tuta kaki. Li hanno fermati le mine, ma la zona — per molti chilometri — ora è sotto completo controllo: l'ultimo scontro a fuoco — dice un vecchio — è di alcuni giorni fa, con gli uomini del luogotenente Khatib. Primo posto di blocco dell'esercito; ne troveremo quattordici: chi siete, dove andate, perché, perché. Non sì può dire che l'atteggiamento sia troppo marziale, è un normale controllo di polizia: sì c'è la guerra, ma questa ormai è provincia siriana. In molti punti resta sulla strada solo il cartello dello « stop », con il manifesto di Assad incollato e riflessivo. I soldati stanno al bordo, stesi sotto i rari alberi, con i piedi nudi a rinfrescarsi all'aria e l'elmetto appeso a un ramo. Gli uomini di Assad sono avanzati su quattro fronti, erano in dodicimila con quattrocentocinquanta carri; fermati nelle città, hanno dominato in campo aperto grazie alla superiore potenza di fuoco. Mentre la strada sale verso Sofar, lo schieramento si fa massiccio, impressionante: interrati sul costone della montagna, i grossi carri di fabbricazione sovietica, i cannoni, le batterie sono a ogni curva, il muso striscia sulla strada, il foro nero della canna s'apre sulle valli ed esprime la forza d'un controllo incontrastato. Nei pìccoli borghi di case contadine, i segni della battaglia: qualche muro annerito, le sventagliate dei cannoncini, il pozzo terroso degli obici. Sofar è la punta avanzata dell'invasione. Le strade sono rinfrescate dalle nuvole che l'attraversano col vento, la montagna domina Beirut, lontana non più di 20 km. Nel silenzio s'ode il tonfo sordo dei cannoni cristiani j che sparano laggiù su Tali | el Zaatar. Abbiamo un fo- \ glietto del ministero delle I Informazioni che ci autoriz- ! za un'intervista con il co- ' mandante del fronte. E' un j giovane ufficiale superiore, I sui 40 anni, massiccio e im- j barazzato. Ha le maniche della divìsa rimboccate, gli \ occhi chiari, la faccia da con- I tadino armeno: « Siamo qui I j | \ per tre motivi, dice; difendere i palestinesi, impedire la spartizione del Libano, combattere contro chi ci vuole ostacolare nella lotta al nostro principale nemico». Non vuole essere convincente, non lo è. Il comando sta in una piccola villa requisita, nella stanza ci sono due brandine militari e le pareti nude, di un brutto color verde. Dalla finestra entrano le voci allegre di bimbi che giocano per strada. Su un tavolino bianco di ferro c'è un telefono da campo, un piccolo transistor e alcuni blocchi di appunti; il ripiano smaltato è coperto da fogli di giornale. Ci offrono un succo d'ananas in un cartone, freddo, splendido. Abbiamo visto troppi carri armati e cannoni, non potrebbe esserci un quarto punto a giustificare — più che un'invasione — una vera e propria occupazione? Il comandante è circondato dai suoi ufficiali, sorride: «Quando il Libano avrà un governo capace di governare, lasceremo il Paese ». Quando sarà? « Aspettiamo, io sono solo un militare, non tocca a me decidere » sembra che reciti a memoria. Città in agonia Parla a voce bassa, risponde un attimo al telefono. Un suo ufficiale scrive due parole su un foglio e gliele fa leggere. Crede che ci sarà ancora una guerra in Medio Oriente? « Sono stato sul Golan, ho combattuto Israele e so che lo combatterò ancora. In tutti questi anni ho imparato una filosofia, mutuandola da Cartesio: "Lotto contro Israele, dunque sono " ». C'è un minuto di silenzio drammatico, l'intervista è finita. Poi le brevi parole di cortesia in un inglese stentato, la foto ricordo. Entriamo in territorio libanese, anche se la frontiera era 40 km a monte. La strada ha le fosse delle mine, si fa ripida, c'è subito Bhandum e il primo posto di blocco di gente del Libano: il foglietto del ministero delle Informazioni siriano l'abbiamo già buttato al vento, è pericoloso, qui conta solo Al Fatah e gli uomini di Jumblat. Hanno mitra e tute militari approssimative, sul petto il distintivo con il globo e penna e martello in I crociati. Sahafa, stampa, an ! diamo a Beirut. Sono molto ' cortesi, consigliano all'auti j sta la strada più sicura, fan I w° saluti con la mano, j I paesi sono spopolati, le case sventrate mostrano i \ segni della lotta. Prendiamo I stradine impossibili, il vec I chio pazzo scalzo è bravissi¬ mo. Sentiamo che c'inseguono da qualche parte spari e raffiche poi il tum-tum di un cannoncino, ma non ci riguarda. La tensione si scioglie leggera, ci è andata bene: là in basso sono comparsi Beirut e il mare. La città vive la sua lunga agonia. Non ha acqua, né luce, il telefono funziona quando vuole, le strade hanno cumuli fetidi di spazzatura assaltati da nugoli di gatti sordi. Lunghi silenzi sono rotti da raffiche rabbiose di mitra, poi il tonfo dei mortai e le sirene delle ambulanze. La zona vecchia è dominata da topi giganteschi, qualcuno resta a pancia all'aria in mezzo alla strada, bucato dalle pallottole. C'è il rischio — anzi la certezza — del tifo e del colera: è un miracolo se l'epidemia non ha anco- I ra bruciato l'ultima resistenI za dei quartieri affollati. Una bottiglia d'acqua minerale costa quasi due dollari. Molte automobili restano ai lati della strada, la benzina comincia ad arrivare solo ora a poche gocce (i cristiani però vengono riforniti attraverso il porto di Junieh). I quartieri dove s'è combattuto sono deserti, silenziosi; le case abbandonate sono saccheggiate o occupate da gente che è dovuta scappare dalla guerra. Ci sono zone tranquille, dove il rumore delle battaglie arriva solo con il vento, ma la vita è dovunque sacrificata, l'isolamento s'avverte in modo soffocante. La legge della giungla domina le notti, ogni mattino si ritrovano corpi di gente sgozzata. La città è ormai divisa in due parti, tra cristiani e musulmani c'è solo il carrefour del museo dominato dai lunghi fucili dei cecchini. Vi stazionano due carri armati con le bandiere bianche e verdi della lega araba, tre soldati libanesi, sudanesi e un ufficiale prendono sorridenti il sole. Da una parte e dall'altra sono state organizzate forze di polizìa, ma il loro controllo è assai problematico, soprattutto quando Beirut scivola nel buio della sera. I giornalisti stranieri sono la sparuta pattuglia privilegiata di questo dramma feroce: i pochi alberghi aperti hanno elettrogeni autonomi, e pompano acqua e luce, ma tutto è scarso, costoso, introvabile. Il mercurio, caldo, umido, è sempre sopra i 30 gradi. C'è la borsa nera, sul bordo dei marciapiedi i ragazzini offrono frutta presa chissà dove. All'annuncio di ogni tregua, riprende una vitalità folle, la città si rianima della gente che cala illusa dai monti, le auto strombazzano, si intasano, riprendono antichi traffici levantini. Ma dura poche ore, le raffiche e il tuono del cannone rifanno presto il silenzio. Quasi a ogni angolo di strada si vendono valigie e borse: perché da una città che muore si scappa. Mimmo Candito

Persone citate: Assad, Fatah, Golan, Khatib