Autocritica del psi in Calabria dopo la "strage,, del 20 giugno di Francesco Santini

Autocritica del psi in Calabria dopo la "strage,, del 20 giugno a Più che agli elettori abbiamo badato al potere,, Autocritica del psi in Calabria dopo la "strage,, del 20 giugno lì capogruppo socialista della Regione afferma: "L'elettorato attento punisce la caccia al posto" - Dure accuse ai due "capi" Mancini e Principe; campagne elettorali faraoniche - "Ora — dicono i socialisti — dobbiamo rinnovarci: ci hanno fatto male tanti anni con la de" (Dal nostro inviato speciale) Cosenza, 7 agosto. I treni speciali allineavano carrozze e motrici roventi sui binari della stazione, al lido di Reggio Calabria. Ne scendevano uomini stanchissimi. Era la vigilia del voto e Saverio Alvaro, sessant'anni, era lì da tre giorni, mattina o sera, nell'odore della ferrovia che si faceva acuto e irrespirabile. A chi rientrava con tréntasei ore di viaggio, l'anziano militante, sempre tentato dalla vena anarchica, consegnava un piccolo manifesto rosso. Ricordava che il partito socialista in Calabria aspettava il voto dei suoi emigrati. Arrivavano le vetture da Francoforte e Alvaro, che a Reggio Calabria negli Anni Cinquanta aveva guidato le lotte per il bergamotto, diceva: «Compagni socialisti, un voto per la nostra terra». Ma dinanzi a quei treni, il militante d'altri tempi ebbe chiaro il quadro di una sconfitta. I volantini gli restavano in mano. Gli uomini salutavano a pugno chiuso, ma «questa volta votiamo comunista», gli dicevano in faccia; e lui, sbigottito, se ne restava in silenzio. Guardava i treni: gli striscioni del pei si susseguivano, uno accanto all'altro, preparati con cura, verniciati con attenzione. «D'improvviso — ricorda — capii la forza dell'organizzazione, il valore di un apparato che lavora per anni con accanimento: i miei manifestini, stampati all'ulti- ma ora. non erano convincenti». Quest'anno il partito comunista ha guadagnato in Calabria centomila voti e i socialisti ne hanno persi trentamila. L'estate dello scontento è agli inizi. Lontanissimi tra Cosenza, Catanzaro e Reggio appaiono i saloni romani dell'hotel Midas, mentre l'architettura discreta del Parco dei Principi, ha in Calabria un sapore avveniristico. Nell'Italia povera del sottosviluppo meridionale, la base socialista è in rivolta. Accusa i suoi «califfi» e respinge, dopo quindici anni di ostilità, l'alleanza inattesa tra Mancini e Principe. «Da padroni delle tessere hanno firmato un'unità sulla carta, che le sezioni non sentono, e si sono spartiti i delegati ai congressi». Lo dice il capogruppo alla Regione, Antonio Mundo, che già vede in atto la restaurazione. «Ma un elettorato attento — aggiunge — punisce la caccia al potere, il privilegio, ancora una volta, è della politica». A Cosenza, area incontrastata di Giacomo Mancini, il psi in dodici mesi ha dimezzato il suo peso e scende dal 22 per cento delle regionali al 13 per cento del 20 giugno. Poco più a nord, tra i palazzoni di Rende, patria esclusiva di Principe, l'emorragia elettorale è stata altrettanto vistosa, da 4600 voti a 2600: è il trauma della sconfitta e lo choc del dopo-voto ancora non si riassorbe. Protesta la base, lanciano accuse i quadri intermedi. Convinti che il potere non paghi, i dirigenti socialisti chiedono un ritorno alla discussione nelle sezioni. E Consalvo Aragona, presidente dell'assemblea regionale, appare deciso: «Tutto, in Calabria, arriva dalle labbra di Mancini e di Prìncipe». Le sezioni debbono riacquistare il ruolo di motori politici, non si possono limitare a «casse di risonanza delle decisioni prese ai vertici». Ma dopo la strage elettorale la strada del cambiamento appare difficile. Stupita, la base respinge l'unità ritrovata l'anno passato attorno a un tavolo: «Un'operazione dì potere, per porre fine a una guerra che pur sembrava portare voti». Tutti rimpiangono gli anni della grande lotta tra Mancini e Principe, che pur impegnava uomini e sezioni. Poi, d'improvviso, i due capi si allearono. Dissero basta alla guerra, ma le sezioni non compresero. La combattività interna si fiaccò in poche ore e «subito — ricorda Angelo Lo Gullo, militante a Cosenza —, se n'è risentito all'esterno». Erano quelli i tempi dei «capitani di ventura», delle carriere misteriose e improvvise, di uomini che diventavano da gregari potenti e preziosi alleati. Si allargavano le aree del privilegio, i capi consentivano ricompense vaste e inattese. Erano gli anni del centro-sinistra, delle grandi opere pubbliche, da Gioia Tauro, a Lamezia, a Sibari, la Calabria sembrava dover diventare un immenso cantiere psr rompere secoli di isolamento. «La politica clientelare — denuncia Mundo — ha creato una scissione tra vertice e base, infine l'accordo tra i califfi ha soffocato ogni ardore ». Questa dei «mercenari» in Calabria è una figura che Vincenzo Ziccarelli, presidente dell'amministrazione provinciale a Cosenza, disegna con tratti spregiudicati. «Uomini — dice — sempre disposti a far battaglia, in nome del capo, per procacciarsi benemerenze e onori: oggi che la guerra è finita si sentono inutili, serrano i ranghi ma le truppe si sfaldano». Nel suo studio di corso Mazzini, in pieno centro di Cosenza, Gaetano Mancini, cugino-nemico del più potente Giacomo, ha il suo stato maggiore. La sconfitta elettorale al Senato l'ha amareggiato. Le accuse sono violente. In una lettera al segretario regionale, Cesare Marini, chiamato dal comitato centrale del Midas alla direzione del partito, non risparmia, con i responsabili della federazione, il «ramo» di Giacomo. La sera della sconfitta si presentò nell'edificio di via Mario Mari, alla federazione. Ad accompagnarlo c'era un gruppo di fedelissimi. Dagli insulti si arrivò agli schiaffi, in un crescendo di risentimento per «un boicottaggio vergognoso, fatto casa per casa, sezione per sezione». Gaetano Mancini degli schiaffi di Cosenza non vuol parlare: «E' una polemica che deve rientrare — dice con toni distesi — all'interno degli organi del partito, nelle sedi naturali». Ma aggiunge: «Sono finiti in Calabria i capitani di ventura, ma si è arrivati a peggio: siamo ai corpi separati». Di più non vuol dire. C'è con lui il segretario della sezione Cappello, una delle più popolari della città. Michele Calvano consegna una fotocopia. E' un documento della sua sezione e assicura: «esttmcgdl «L'hanno firmato in seicento e in tutta Cosenza gli iscritti sono appena il doppio». E' una cartella dattiloscritta da leggere controluce. C'è tutta la storia dell'elezione mancata di Gaetano Mancini, ci sono, messi in bella copia, gli improperi e i risentimenti del dopo elezioni. Si chiede l'autocritica del gruppo dirigente, si denunciano campagne elettorali folkloristiche e faraoniche, si suggerisce, con la moralizzazione del partito, la restituzione di autorità e prestigio agli organi statutari. Si pretende, infine, la chiusura «di quelle sedi collaterali che sotto etichette diverse sono divenute corpi separati al servizio di determinati ed individuati uomini del partito». Qui il riferimento è preciso: la sezione Cappello denuncia il Centro intellettuali socialisti di via Panebianco mobi- litato «più alla ricerca di pre-ferenze individuali che alia battaglia politica », Tace Gaetano Mancini, parla con toni spregiudicati il nipote Antonio Rugiero, assessore alle Finanze al comune di Cosenza. «E' in discussione un costume, è in gioco la credibilità di un partito: non è sufficiente — dice — sommare cariche su cariche, presidenze dopo presidenze». Una base attenta rifiuta un congresso fatto attorno a un tavolo, respinge, secondo Rugiero, un esecutivo di federazione «uscito dal cappello a cilindro del prestigiatore di turno». Molto a Cosenza e in Calabria viene dai socialisti, ma il partito perde colpi. «A nulla serve il potere — ripete la base — senza politica». Un caso emblematico, quello dell'ospedale civile di Cosenza: milleduecento ricoverati, presidente socialista. Il psi nel seggio allestito in ospedale ha registrato su milleduecento schede soltanto sei voti. C'è da domandarsi perché, e Vincenzo Ziccarelli che pure presiede l'amministrazione provinciale a Cosenza, risponde: «Il nodo è nel rinnovamento: per anni abbiamo gestito il potere assieme alla democrazia cristiana | poi è arrivato il 15 giugno, il 1 partito è cresciuto, ma la giunta di sinistra al Comune come alla Provincia ha consentito ai comunisti spazi sempre più ampi, conquistati spesso sulla perdita di credibilità della nostra linea, ma ancora più di frequente su una ricerca quotidiana del pei di scaricare sul nostro partito ogni ritardo, ogni inadempienza». Francesco Santini