Confidenze d'attore: il denaro e Io

Confidenze d'attore: il denaro e Io Confidenze d'attore: il denaro e Io E' vero. Sono stato un giocatore. Un fissato del tavolo verde. La roulette è stata la mia tiranna, la mia ossessione. Per anni le luci della città, sedi di casinò, hanno esercitato su di me un richiamo fortissimo. Perché? Ad un certo punto della mia vita, cos'è stato a turbare la mia armonia psichica? Perché queste spinte irresistibili ad uscire dalla realtà? Forse la mia antica miseria? O la noia di vivere o il desiderio, in un'epoca di macchine, di sconfiggerne almeno una? Di misurarmi con i numeri, dal tempo della scuola miei nemici? Oppure autodistruzione? Venezia, città non mia, non amata, incubo della bellezza, passato mummificato, mi diventava amica, le notti d'inverno che solcavo l'acqua sporca dei suoi canali per andare a Ca' Vendramin, sede del casinò (in quale di quelle camere Wagner ha tirato le cuoia?). Sentivo d'amare quel freddo umido che m'entrava nelle ossa, quelle case deserte, quelle piazzette male illuminate che scorgevo passando in motoscafo. E il pericolo, il pericolo che slavo per godermi, mi rinvigoriva. Da quel deserto, da quell'atmosfera di morte, per strano contrasto io ne ricavavo vita. O illusione di vita. Con chi mi accompagnava intessevo sistemi impossibili per vincere, inventavo sequenze di numeri, riportavo alla memoria ricordi di favolose vittorie (non mie, naturalmente). Ricordi raccolti intorno ai tavoli verdi, al bar nei momenti di sosta da altri combattenti, da altri viandanti del « cammino di ferro ». Di queste storie, ogni giocatore è rigurgitante. Sono, credo, l'unica sua ricchezza. E mefistofelicamente i dipendenti dei casinò le alimentano. Fortune improvvise, situazioni risolte all'ultimo momento, intuizioni fantastiche, coincidenze misteriose: da Piazzale Roma all'imbarcadeio del casinò mi accompagnavano, quasi autosuggestione, autoipnosi, ed il primo passo sul traballante pontile di legno era sicuro, alto il morale, brillante l'occhio. Si potevano dare anche ricche mance al portiere che mi accoglieva con servile ed esaltante complicità. Entravo nelle sale affrescate o damascate con sfrontatezza, stranamente euforico, pronto a gettare nelle mani dei croupiers la mia vita. Ed uscivo dal tempo. E questo credo ora fosse lo scopo mio e dei molti vecchi che s'aggiravano fra i tavoli. Non sentire più scorrere la vita. A ben guardare non era il denaro che ci teneva lì, ma la macchina che, con il suo girare, pietosamente respingeva fuori dalla dimensione obbligata della noia me e quei vecchi che camminavano a piccoli passi, tossendo, respirando faticosamente. Uscivamo tutti dal tempo. Infatti dopo una sera di battaglia, alla chiusura, solo quando la voce spietata dell'ispettore annunciava: « Messieurs, aux Irois demiers! », tu ritrovavi il tuo corpo e le sue necessità fisiologiche. E allora dovevi mangiare, bere, svuotarti, tutto insieme. Non avevi tempo di fare le cose distintamente. Dovevi correre, correre, e riaffrontavi così la tua realtà. Sconfitto o vincitore non potevi essere felice: semplicemente, ritornavi. E la danza dei numeri, con i quali avevi lottato fino a pochi momenti prima, restava nel tuo cervello. Ne sentivi ancora la I sarabanda. Frastornato da queste risonanze che si mescolavano al noioso mormorio della coscienza, tra volti disperati, segnati, ti mettevi in fila al guardaroba. E poi via, nella notte veneziana con la bocca amara dal gran fumare, il cervello vuoto, i nervi logori. Ebbene: non rinnego nulla di tutto ciò. Non me ne pento. Posso capire l'ira di mia moglie, il disprezzo, l'ironia, il moralismo dei falsi amici che però non bastano a farmi sentire un verme. Il denaro ed io non siamo fratelli, non lo siamo mai stati e vederlo andarsene così stupidamente dietro il giro di una pallina, è stata la mia maniera di maltrattarlo. Il denaro non ha mai costituito nulla per me. Soprattutto il danaro di questa società, di questi nostri tempi. Dove nasce? Dalla droga? Dalla pornografia? Dalla violenza? Dallo sfruttamento dell'uomo? Dagli intrallazzi politici? Dalla mancanza di solidarietà? Dalle false opere umanitarie? Da quali mani insomma? E quel poco che è capitato nelle mie, con tanto sudore nell'arco della mia attività, da dove proveniva? E' vero che il buon ruffiano dai mille volti è servito a darmi un tetto, a portare avanti la mia vita di padre di famiglia, a spianare molti ostacoli, ma io ne ho sempre sentito il fetore, la nascita vergognosa, e soprattutto la diffidenza che lui nutriva nei miei confronti. E allora, con grande piacere, ne ho fatto il mio schiavo. Me ne sono servito. E così, pur essendo povero sono vissuto da re. Poco importa se nella mia vecchiaia sarà lui a riprendere il sopravvento e si vendicherà privandomi di tutto. Il ricordo delle sue sconfitte nelle notti veneziane, o sanremesi, mi aiuterà a sopportare la mia povertà. E le luci, il rosso e il nero, il giro vorticoso della roulette, il rumore della pallina, il verde del tappeto, lo scomparire del mio ex-schiavo nella « cagnotte » contribuiranno a riempirmi ls ore vuote. Racconterò ai miei nipoti di un prodigo che ha credulo la vita soltanto illusione, sogno, e convincerò anche loro a farsi abiti con tasche bucate. Il denaro, la ricchezza, il capitale non esistono. Tu, sì. Tino Buazzelli

Persone citate: Piazzale, Tino Buazzelli, Vendramin

Luoghi citati: Roma, Venezia