Quanti altri pericoli? di Tino Neirotti
Quanti altri pericoli? Quanti altri pericoli? Questa volta è toccato agli abitanti della zona tra Seveso e Meda. Il reattore, che per un guasto ha lanciato nell'aria la nuvola tossica con il terribile Tcdd, è infatti collocato nello stabilimento Icmesa che sorge tra i due comuni. Ma quante altre fabbriche che preparano, manipolano, trasportano sostanze ■ velenose si trovano nelle città e nei paesi, al nord, come al centro o al sud dell'Italia? Di alcune si è parlato tanto negli ultimi tempi, così tanto che quasi non fanno più notizia. Per esempio la Ipca di Ciriè presso Torino, i cui dipendenti in maggioranza sono morti, uno dopo l'altro, di tumore alla vescica provocato dalla benzidina e dalla betanaftilamina usate per i coloranti, oppure gli stabilimenti Montedison di Cengio e Spinetta Marengo che hanno ucciso con i loro scarichi tutti i pesci della Bormida e danneggiato parte delle colture delle tre province di Asti, Alessandria e Cuneo, lungo il corso del fiume. Ma ora il fatto è nuovo, quasi mai accaduto nel resto del mondo; e quindi più clamoroso; e la nube di gas mortale che avvelena animali e frutti alle porte di Milano e che minaccia la vita degli uomini, incute timori insoliti, dà emozioni più intense; la paura e Io sdegno di tutti sono più forti. Si annunciano le prime misure. Nella Regione Lazio è stato indetto un censimento delle industrie che producono sostanze tossiche: sarà il primo. C'è in questo una analogia con la vicenda delle fabbriche clandestine di fuochi artificiali. Ogni Unto ne saltava in aria qualcuna, con qualche cadavere o qualche ferito. Ma quando negli anni scorsi a Roma un intero palazzo fu sventrato e poco più tardi a Napoli morirono molte persone allora gli scantinati in cui si preparavano i botti divennero il pericolo pubblico più temibile; intervenne il ministero dell'Interno, fu mobilitata la polizia, quintali di esplosivo furono sequestrati e decine di fabbricanti non autorizzati mandati in carcere; il Parlamento approvò anche una nuova legge. Erano stati necessari lutti e rovine di grandi proporzioni per fare quello che voci solitarie di singoli o di gruppi chiedevano da tempo. L'analogia tra gli stabilimenti chimici o di altro genere e le fabbriche clandestine di fuochi artificiali consiste proprio in questi due aspetti: che le voci d'allarme cadono nel vuoto o sono ascoltate con fastidio, che per intervenire si aspettano le sciagure. In questa Italia industriale, che compete con gli altri Paesi ad alta civiltà tecnologica, ci sono stati finora due ruoli molto chiari e vistosi: da una parte scienziati, tecnici e imprenditori che si spingono avanti nell'applicazione delle tecniche più moderne e nel costruire gli impianti più sofisticati, dall'altra gli ecologi che mettono in guardia dai pericoli, che ammoniscono e accusano. Chi manca è il potere politico. La burocrazia è tanta, le leggi sono vecchie e contraddittorie. Oggi per aprire una fabbrica bisogna fare queste cose: denuncia all'Ispettorato del Lavoro, denuncia al sindaco (con relazione speciale se gli impianti possono contribuire all'inquinamento atmosferico), denuncia alla Camera di Commercio, denuncia al Tribunale, richiesta al Presidente della Giunta provinciale amministrativa, denuncia ai vigili del fuoco, denuncia all'Utif, denuncia all'Enpi. Se poi si impiegano gas tossici, allora entrano in funzione le laboriose norme del Regio Decreto 9 gennaio 1927, modificato il 10 giugno 1955. Per i controlli sull'eventuale inquinamento atmosferico c'è la legge del 13 luglio 1966 che li affida ai comuni e alle province, i quali possono chiedere a loro volta l'intervento della Regione. Se si considera che non pochi degli stabilimenti che trattano materie nocive, sono situati in piccoli comuni senza mezzi, si comprende come le norme siano poco efficaci in fatto di funzioni e di responsabilità. Il passo da fare è ancora lungo, data la confusione che regna in questo campo e la mole di compiti che Parlamento e Governo hanno di fronte a sé. Tuttavia il caso dell'Icmesa, per quanto possa anche trattarsi di fatalità, non consente di perdere altro tempo. Tino Neirotti
Persone citate: Meda, Spinetta Marengo
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