Lo scalatore biellese Guido Machetto precipita e muore sul Monte Bianco di Gigi Mattana

Lo scalatore biellese Guido Machetto precipita e muore sul Monte Bianco Lo scalatore biellese Guido Machetto precipita e muore sul Monte Bianco Aveva 39 anni - Stava scalando la Tour Ronde con uno studente: gli è mancato un appiglio, è caduto per parecchi metri e ha battuto il capo - Le sue imprese più clamorose: la parete sud delle Grandes [orasses e il Tirich Mir in Pakistan (Dal nostro corrispondente) Aosta, 24 luglio. Uno dei più forti scalatori italiani e dei più noti organizzatori di spedizioni alpinistiche, Guido Machetto, 39 anni, di Biella, è morto oggi in un incidente avvenuto sulla Tour Ronde, una cima di 3798 metri nel massiccio del Bianco, accanto al ghiacciaio del Gigante. Con uno studente biellese, Eugenio Gariglio, diciannovenne, Machetto era giunto stamane a Courmayeur: salito col giovane a Punta Helbronner e percorso il tratto di ghiacciaio, aveva attaccato la parete nord-est, che è impegnativa ma di non eccezionale difficoltà alpinistica. E' a questo punto che è avvenuta la disgrazia, un incidente come può capitare anche allo scalatore più provetto. Era circa mezzogiorno e la cordata stava per giungere in vetta. «Eravamo proprio all'ultimo tiro di corda — ha raccontato Eugenio Gariglio —, quando ho visto Marchetto, che era in testa, mancare un appiglio di roccia, che deve essersi staccato dalla parete, e precipitare passandomi accanto e finire una decina di metri più in basso. Ho fissato la corda, sono sceso, ma ormai non c'era più nulla da fare. Aveva battuto mortalmente il capo contro la roccia». Il giovane studente è sceso quindi ad un vicino posto di soccorso sul versante francese. Un elicottero ha recuperato la salma che è stata trasportata a Courmayeur. Guido Machetto aveva al suo attivo numerose «prime» sulle Alpi. Basterà citare la nuova via sulla parete sud delle Grandes Jorasses, tracciata con Alessandro Gogna, e il picco Muzio al Cervino, con Calcagno, Cerruti e Di Pietro. Ma oltre alla sua bravura di scalatore, di Machetto bisogna ricordare la capacità di organizzatore di spedizioni. Una decina circa furono compiute fuori Italia, sull'Himalaya, nelle catene montuose del Pakistan, sulle Ande peruviane e nell'Artide norvegese. Nel 1973 capeggiò la sfortunata spedizione del Cai di Busto Arsizio all'Annapurna finita tragicamente. Due alpinisti, Rava di Biella e Cerruti di Milano, morirono travolti da una valanga, le condizioni del tempo e della montagna divennero proibitive e la spedizione dovette ripiegare e tornare indietro. Le ultime due imprese all'estero furono la conquista del Tirich Mir II, nel 1974, l'ultima vetta di settemila metri del Pakistan ancora inviolata, insieme con Beppe Re di Biella. L'anno dopo scalò il Tirich Mir principale con Gianni Calcagno di Genova. Fu un'impresa eccezionale. Per due volte la stessa cima venne scalata per vie diverse e di estrema difficoltà, come sono le vette di oltre settemila metri, non foss'altro per la quota. Era intenzione di Machetto organizzare di nuovo una spedizione sull'Annapurna, non voleva darsi per vinto. Lo ha invece ucciso un incidente su una montagna facile. r. s. E' odioso fare classifiche, soprattutto quando non ci sono tempi o altre misure che le convalidino, ma Guido era da molti considerato, assieme a Giorgio Bertone e dopo il fenomeno Messner, il mìgliore alpinista italiano. Ed era un uomo unico che viveva la montagna in un modo diverso da altri, anche eccelsi, scalatori: la più accurata preparazione fisica, il rifiuto di tutta quella retorica che ha sempre ammantato le scalate, accanto a un entusiasmo, a una voglia di rischiare in prima persona insolita in un uomo di quell'esperienza; alpinismo atletico e mistero delle vette che convivevano felicemente, ma senza l'insoddisfazione cronica di Gervasutti, senza la fredda logica di Bonatti. Forse perché fino a oggi Machetto dalla montagna aveva avuto tutto in eguale misura: i drammatici giorni quando il tornare vivo dall'«integraie» del Peuterey fu un miracolo e la luminosa vittoria sulle Grandes Jorasses; quella valanga sull'Annapurna che si portò via Cerutti e Rava e lui lì, nella tenda, a piangere, e la rivalsa sull'Himalaya con due stupende vittorie al Tirich Mir. Proprio sul Tirich Mir Guido inventò un nuovo modo di lare l'alpinismo extraeuropeo, un anno con Beppe Re, l'anno successivo con Gianni Calcagno riuscirono a vincere un «quasi ottomila» con un milione di spesa a testa, senza ossigeno, senza portatori, mangiando quei poveri cibi dei montanari locali: una vittoria su se stesso e unti sfida all'alpinismo ufficiale, quello che aveva speso miliardi per la spedizione all'Everest «mentre — diceva — le ragazze cinesi e giapponesi sono arrivate in vetta senza respiratori». L'ultima scalata al Tirich Mir fu il suo capolavoro: quattro bivacchi in parete, praticamente senza mangiare, vento e freddo a 40 sottozero, poi l'arrivo in vetta e, come in una favola, il cielo si rasserena e spunta il sole. E, fatalmente, tra il clamore e l'ammirazione, nacquero anche le polemiche: quello non era alpinismo, era una stupida sfida alla montagna, un rischio eccessivo, una ricerca del mito del superuomo che poteva portare tanti giovani a imitarlo e a cadere. E lui, duro, a ribattere: «La nostra è una storia qualunque e non ci interessa quanto clamore possa suscitare: non siamo fanatici, non sventoliamo bandiere sulla vetta per la foto ricordo, per noi l'alpinismo è un lavoro e cerchiamo di farlo seriamente». Poi ancora progetti: voleva portarmi, o trascinarmi di peso, sulle Grandes Jorasses; studiavamo un grande viaggio in auto fino alla base di qualche montagna pakistana o nepalese ancora inviolata, poi lui l'avrebbe salita e io sarei rimasto in basso a «tenere i collegamenti», eufemismo per dire che lassù non sarei potuto arrivarci. Era «malato» di Himalaya: «E' l'ultima grande occasione per le avventure dell'uomo». Invece sul solito, familiare Bianco ha pagato il prezzo dei suoi sogni. Gigi Mattana