Gli evirati cantori

Gli evirati cantori LIBRI DI UOMINI E LIBRI DI PROBLEMI Gli evirati cantori « A Roma, ove Venus est utraque nota, i cantori vengono processionalmente accompagnati, finito il teatro, con infinite torce. A me sembra questa una innovazione delle feste baccanali, assai simili a quelle di Priapo... ». A questo commento, di anonimo, in margine alla Lullìade del Calzabigi, corrispondono alcuni sonetti del Belli sugli « evirati cantori » e sui ballerini « ermafroditi »: e particolarmente, cioè per un particolare richiamo che in noi suscita, quello che comincia « Quer monzù a Tordinone... », con l'effetto che l'esibizione del ballerino « ermafrodito » produce nel pubblico femminile, che ci riporta a una indimenticabile scena della Grande illusione di Pierre Renoir: l'effetto che sui prigionieri produce il travestimento, per uno spettacolo da loro allestito, di alcuni loro compagni. Ma qui ricordiamo — in rapporto a « evirati cantori » e a ballerini « ermafroditi » — Roma, l'anonima chiosa al Calzabigi, i sonetti del Belli, soltanto per porci un piccolo problema sul romanzo Porporino o i misteri di Napoli di Dominique Fernandez, che è appunto un romanzo sugli « evirati cantori ». Perché Napoli e non Roma? Sembra una domanda inutile, oziosa; di quelle che mettendo un « se » alle cose già state, ai fatti già accaduti, aprono una raggiera di possibilità — e cioè di impossibilità. Il « se » formulato da Pascal sul naso di Cleopatra, insomma. Riguardo al romanzo di Fernandez la domanda è però inutile e oziosa fino a un certo punto. Anche la risposta più immediata ed ovvia — che conoscendo Fernandez meglio la Napoli di oggi, per lungo soggiorno e frequenti ritorni, gli era meno difficile immaginare quella di due secoli addietro — ha una sua funzione nella lettura del romanzo; e ancora di più se aggiungiamo che la ama. Ma ci sono risposte meno ovvie, più complesse. Scegliere Roma invece che Napoli implicava un radicale mutamento del punto di vista: più ristretto e in un certo senso più repressivo; più moralistico, più censorio. Implicava cioè il voler fare, su quella materia, un tutt'altro romanzo, ma in un certo senso scontato: e scontato per l'inevitabile scorrervi dell'indignato giudizio di un Foscolo, che riteneva povera di valori e inanemente lasciva una società che invece di monumentare i suoi migliori era dedita ad allettare gli « evirati cantori ». Come se il monumentare non fosse peggior vizio di quello dell'ascoltare il bel canto: come ben sappiamo, ritrovandoci con tanti e brutti monumenti (toccati anche, per giustizia, al Foscolo). Fernandez ha voluto, sul tema dei « castrati », scrivere un libero e gioioso racconto, musicalmente libero e gioioso: e soltanto sullo sfondo di Napoli, mobilissimo, festoso, umanamente pulviscolare (di un solare pulviscolo: per correggere l'immagine di Gobineau) poteva svolgerlo; a Napoli dove il nome di un « castrato », il famoso Farinelli, è diventato sinonimo di pavoneggiante conquistator di donne, di galante (e si pensi a quella poesia di Salvatore Di Giacomo in cui ai giovani si consiglia l'acquisto di un ombrello: « si l'ombrello nun tenite e facite 'o farinello, giuvanò, corno vulite 'na guagliona accumpagnà? »). Ambientandolo a Roma, il romanzo sarebbe stato indubbiamente più greve; più belliano, nel senso che il giudicare, anche attraverso l'oggettività della rappresentazione, la satira, il gioco dei contrasti, vi avrebbero preso più corpo. Sarebbe stato anche più illuministico: nel senso per cui è di provenienza illuministica il giudizio del Foscolo e di quanti videro nella castrazione dei ragazzi da destinare al bel canto efferatezza e depravazione diciamo cattolica. E non che efferatezza e depravazione non fossero nella cosa in sé, nella scelta, nella mutilazione, nella coltivazione di quei fanciulli, sempre di poverissime famiglie (e nel decidere di far castrare un bambino che aveva bella voce giocava la speranza di sollevarsi economicamente e socialmente come — lo abbiamo visto fino ai giorni nostri — nell'avviarlo al seminario, se intelligente, e farlo diventar prete). Ma in coloro che poi riuscivano (tremendo doveva essere il fallimento), come il Farinelli ed altri famosi, non pare ci fosse quella tristezza e quel rancore che noi siamo portati a immaginare. Forse a loro bastava volgersi indietro, a guardare la vita che senza quell'operazione chirurgica sarebbero stati destinati a vivere, gli stenti, la miseria, il duro lavoro, le angherie, per sentirsi compensati di quel che avevano perduto, soddisfatti del loro stato. E la testimonianza più diretta — l'unica, crediamo, che finora si conosca di « prima persona » — è nel poema biografico che si intitola Frutti del mondo di Filippo Baiatri da Pisa, « evirato cantore » vissuto tra il 1676 e il 1756. Pubblicato da Karl Vossler nel 1924, in quella collezione settecentesca promossa dall'editore palermitano Sandron e diretta da Salvatore Di Giacomo (e Mondadori, che l'ha rilevata, crediamo farebbe bene a ristamparla), il poema è documento di una condizione vissuta senza quella cupezza, o almeno malinconia, che generalmente si vuol credere propria a coloro che per natura o per altrui violenza non sono in grado di aver rapporti fisici con una donna. Si direbbe che il Balatri si senta invece, sotto questo aspetto, molto libero; che la sua condizione abbia saputo volgere in leggera, ironica, gioiosa misoginia. E viene da pensare alle ultime pagine del Bell'Antonio di Brancati: al disgusto di sé, al pianto, di quel personaggio invece ossessionato dalla donna. L'idea, il nocciolo da cui viene Porporino non crediamo sia stato però — a dirla approssimativamente —■ psicologico, ma musicale. Fernandez ha visto gli « evirati cantori » sotto la specie della musica che cantavano, li ha fatti un tutt'uno con quella musica. E viene voglia di assumere il libro, il senso del libro, la delizia con cui lo leggiamo, in quel passo del Vangelo secondo Tommaso che dice: « E se voi fate del maschio e della femmina una cosa sola, affinché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina... allora entrerete nel Regno! ». Nel Regno della Musica. ★ ★ Come la musica, quella dei musicisti che Stendhal adorava, muove il Porporino di Fernandez, la pittura, una pittura di Antonello da Messina, quel vigoroso e misterioso ritratto che si trova nel museo Mandralisca di Cefalù, è il seme del libro di Vincenzo Consolo, ora pubblicato da Einaudi, che s'intitola II sorriso dell'ignoto marinaio. Ma prima di parlare del libro, qualcosa bisogna dire del suo autore. Siciliano di Sant'Agata Militello, paese a metà strada tra Palermo e Messina, sul mare, Lipari di fronte, i Peloritani alle spalle, Consolo — tranne gli anni dell'università e cinque o sei degli ultimi, passati a Milano — è vissuto nel suo paese e muovendosi, per conoscerli profondamente nel linguaggio e nella vita, nei paesi a monte: che sono paesi « lombardi », della « Lombardia siciliana » di Vittorini. Solo che Consolo, a misura di come li conosce, oltre che per temperamento e formazione, è ben lontano dal mitizzarli e favoleggiarne, come Vittorini fece in Conversazione in Sicilia e, più, ne Le città del mondo. Quel che più attrae Consolo, di questi paesi, è forse l'impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte radici di uno sparuto rameggiare. Perché Consolo è scrittore che s'appartiene alla linea di Gadda: ma naturalmente, non per quel volontario e arteficiato gaddismo (che peraltro ambisce a riconoscersi in Joyce e non in Gadda) che ha prodotto libri senza lettori e testi, proprio dal punto linguistico, di assoluta improbabilità. Altro elemento da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio per anni intrattenuto da Consolo con Lucio Piccolo. Tutto, in come è Consolo e in com'era Piccolo, li destinava a respingersi: la età, l'estrazione sociale, la rabbia civile dell'uno e la suprema indifferenza dell'altro; e pure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma attenta, una bizzarra e forse bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c'era una segreta, sottile affinità: una sconfinata facoltà visionaria e la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento fosse quello della classe cui ciascuno apparteneva — di degnificazìone per Piccolo, di indegnificazione per Consolo — non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini. (Il termine degnificazìone ci viene da un saggio di Pedro Salinas su Guillén: e quindi anche il suo opposto). Il primo libro di Consolo, La ferita dell'aprile, pubblicato nel '63 in una infelice collana, non so se è stato e come recensito: probabilmente chi davvero l'ha letto ha avuto qualche perplessità a mandarlo tra i neorealisti; ma tant'è che era comodo mettercelo. Dopo tredici anni, Il sorriso dell'ignoto marinaio imperiosamente consiglia di togliervelo: essendo questo in preciso e coerente rapporto con quello, ma in un processo di sviluppo e di arricchimento in cui si sentono i tredici anni fervidamente passati. Fervidamente, diciamo, a pensare questo libro, a scriverlo, a costruirlo: in margine ad altro lavoro, anche giornalistico (di cui restano « pez-* zi » memorabili, come quello sull'assassinio del sindacalista Battaglia che abbiamo riportato nell'antologia dei Narratori di Sicilia). Un margine forse esiguo di tempo, ma di dominante intensità certamente. A costruirlo, abbiamo detto. E lo affermiamo anche polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, in detrazione, che è un libro costruito. Certo che lo è: ed è impensabile i buoni libri (senza dire dei grandi) non lo siano, come è impensabile non lo sia una casa. L'abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e — appunto — a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti: e oggi sono tanti, al punto da far mortale zavorra per chi li stampa. Un libro ben costruito, dunque, questo di Consolo: con dei fatti dentro che sono per il protagonista cose viste; cose viste che assumono luce, taglio e qualità di pittura, ma non si fermano lì: provocano un interno sommovimento, in colui che vede, una inquietudine, un travaglio; sicché infine Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, collezionista d'arte, descrittore e classificatore di molluschi terrestri e fluviali, si ritrova dalla parte dei braccianti che hanno massacrato i baroni come lui. E facilmente viene da pensare che nel personaggio del barone Mandralisca Consolo abbia messo quel che mancava all'altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell'uomo che aveva « letto tutti i libri » e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha lasciati di versi: la coscienza della realtà siciliana, il dolore, la rabbia. «Tal che in se stesso infine l'eternità lo muti... ». ★ * I baroni siciliani. Come dice Francesco Orlando in quel suo Ricordo di Lampedusa, conversando con Tornasi e con Piccolo ci si poteva anche illudere fossero spontaneo prodotto di una classe. Ma sarebbe stata, appunto, una illusione. E illusione simile avranno avuto, un secolo avanti, i giovani siciliani che conobbero, reduce dall'esilio, Michele Palmieri di Miccichè. Bisogna subito dire che la fortuna presso i posteri di Michele Palmieri è dovuta al fatto di non essere stato propriamente, agli effeti del titolo e del patrimonio, barone di Miccichè e marchese di Villalba; di essere stato cioè cadetto, e confinato in quel limbo di avara rendita, di inattività, di noia, in cui la feudalità confinava i cadetti. Non fosse stato cadetto, squattrinato, annoiato, dopo aver giocato nel 1820 alla rivoluzione, come tanti altri della sua classe sarebbe rimasto in Sicilia, facilmente ottenendo quel perdono che invece con difficoltà ebbe vent'anni dopo. Preferì correre l'avventura dell'esilio: Fran¬ cia, Belgio, Inghilterra, Svizzera. A Parigi ebbe la fortuna di incontrare Stendhal. A Ginevra quella di trovar donne poco inclinate ai giochi della galanteria, e conseguentemente di annoiarsi: per cui prese a gusto di scrivere. Ma senza l'incontro con Stendhal nel salotto di Giuditta Pasta, senza la lettura e postillazione che Stendhal fece dei Pensées et Souvenirs, senza la raccomandazione che annotò nei Mémoires d'un touriste («Les détails les plus originaux et les plus vrais sur Naples et la Sicile nous ont été doi.iies par M. Palmieri Miriche»: così, Miriche; ma esattamente, e col «de», lo ricorda in Racine et Shakespeare), con tutta probabilità intorno al suo nome e alle sue opere non si sarebbe acceso quell'interesse di cui è frutto — quasi definitivo per quanto riguarda la ricerca documentaria — il libro ora pubblicato di Nicola Cinnella (Michele Palmieri di Miccichè, Palermo, Sellerio). Aperta da Pierre Martino nel 1927, continuata da Luigi Foscolo Benedetto, Francois Michel, Massimo Colesanti e Bruno Pincherle (stiamo citando gli stendhalisti, trascurando coloro che di Palmieri si sono occupati in quanto testimone di fatti storici e del costume locale), la ricerca si conclude — o quasi: poiché, come dice Valéry per Stendhal, su un personaggio simile, stendhaliano avant la lettre, si può non finir mai — con questo libro di Cinnella. Ma dobbiamo anche far presente che in questi anni la Regione Siciliana ha promosso la ristampa delle due opere principali — Pensées et souvenirs (1969, con introduzione di Dominique Fernandez) e Moeurs de la cour et des peuples des Deux Siciles (1971, con introduzione di Massimo Colesanti) — e che un'ampia antologia dei due libri tradusse Umberto Caldora e integralmente i Moeurs ha pubblicato l'editore Longanesi, nella traduzione di Preziosa Loreto e con introduzione di Enzo Sciacca. Più di una volta abbiamo usato la parola fortuna. La useremo ancora una volta: la fortuna di Miccichè con le donne. Dovuta alle stesse ragioni per cui diventa sfortunato, e quindi annoiato, e quindi scrittore, con le donne svizzere. A differenza di Casanova, che benissimo si trova con le donne svizzere, che con loro consuma il più sapido erotismo, Miccichè non capisce che il verso per entrare con loro in confidenza è quello di trattarle da pari a pari e non di farne oggetto di corteggiamento, di galanteria. Casanova con loro discute di teologia (« Lasciò cadere l'ultimo velo del pudore citando San Clemente d'Alessandria »); a Michele Palmieri, ammesso che ne fosse stato in grado, non sarebbe mai venuto in mente di parlare con una donna del libero arbitrio e del mistero della Trinità. Era, avant la lettre anche in questo, un personaggio di Brancati. Ma era anche, in ritardo, un personaggio settecentesco: di quel Settecento, già ritardato, che la Sicilia visse nel periodo napoleonico. Leggerne la vita, nella ricostruzione che Cinnella ne ha fatto, è uno di quei piaceri che raramente ci toccano, in questo poco settecentesco tempo nostro. Leonardo Sciascia