L'Italia farà da sé? di Nicola Adelfì

L'Italia farà da sé? Voi e noi di Nicola Adelfì. L'Italia farà da sé? Un mese fa dal Lido di Venezia mi scrisse il lettore Salvatore Luchi, « un trentino che nella prima guerra mondiale ha combattuto come volontario nelle file dell'esercito italiano ». A suo giudizio, i nostri alleati della Nato non si mostrano molto preoccupati per il fatto che l'Italia possa rinunciare a farne parte; e i motivi sono politici, psicologici e storici. Motivi politici: un'Italia governata in tutto o totalmente dai comunisti non sarebbe un alleato conveniente. Motivi psicologici: lo scarso patriottismo della nostra gioventù. Motivi storici: nella prima e nella seconda guerra mondiale l'Italia si staccò dai suoi alleati e finì il conflitto contro quegli stessi alleati. Sono opinioni non nuove, ma sempre più diffuse in Italia e all'estero. Per questo non mi ha sorpreso apprendere che a Portorico i nostri maggiori alleati, Stati Uniti e Gran Bretagna, Germania e Francia, hanno deciso di non dare più aiuti economici all'Italia nel caso che i comunisti siano chiamati al governo con incarichi ministeriali. Se questo dovesse avvenire, sì renderebbe poi inevitabile il distacco dell'Italia dall'alleanza atlantica: i cattivi rapporti economici sono infatti inconciliabili con buoni rapporti politico-militari. Questo dice la logica elementare. E perciò non me la sento di unirmi al coro quasi unanime degli uomini politici e dei miei colleghi che protestano contro un avvertimento qualificato come « inammissibile ingerenza straniera negli affari interni italiani ». La ragione principale del mio dissenso è presto detta: poiché ciascuno ha il diritto di scegliersi i soci a lui confacenti, a un certo punto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, la Germania e la Francia possono benissimo non gradire più la nostra compagnia e andarsene per conto loro. Non vedo proprio dove sia lo scandalo, e non so quanto sincera sia l'indignazione tra noi. Tutt'altro diventa il discorso se lo mettiamo sul piano contingente della lotta politica: allora appaiono quanto meno inopportune le minacce del cancelliere tedesco Schmidt agli italiani di stare bene attenti a non dare ministeri ai comunisti. Anche se in Italia il patriottismo, dopo lo scempio fattone da Mussolini e dai suoi gerarchi, è in ribasso, diciamo anche una merce sospetta, gli italiani tuttavia reagiscono istintivamente quando gli stranieri si immischiano nei nostri affari interni. Tra noi stiamo sempre a parlare male dell'Italia, pochi o molti arrivano a definirla con espressioni da trivio; e però se udiamo stranieri accusarci di essere sporchi o ladri o peggio, allora ci monta subito la mosca al naso. Siccome siamo fatti così, considero un dono gratuito al partito comunista italiano l'incauta dichiarazione del cancelliere Schmidt. Proprio così: un dono ai comunisti, a spese di coloro che in Italia non lo sono. Quanto costose possano essere quelle spese, domandatelo a qualche superstite collaboratore di De Gasperi, per esempio ad Andreotti. All'inizio del 1953 il presidente Eisenhower mandò a Roma come ambasciatore una scrittrice belloccia e miliardaria, molto sicura di sé e un po' sventatella, Clare Boothe Luce. Quell'anno si tenevano in Italia elezioni politiche molto importanti con una legge nuova, definita ufficialmente « maggioritaria » e soprannominata « truffa » dai comunisti. Lasciamo perdere i particolari della legge e le torride polemiche. Malauguratamente per De Gasperi, pochi giorni prima delle elezioni la pimpante ambasciatrice americana se ne andò a Milano e nel corso di una riunione pubblica disse che il suo Paese non avrebbe più aiutato l'Italia sulla via della ricostruzione se gli elettori non avessero dato la maggioranza dei voti ai partiti governativi. Quando De Gasperi lo seppe, si mise le mani nei capelli, ben conoscendo la suscettibilità degli italiani. Accettò di incontrarsi a colazione con la signora Luce e non fece altro che sgridarla come una bambina per quel che aveva detto a Milano. All'inizio l'imprudente signora cercò di difendersi con sofismi e civetterie, ma infine chinò il capo e rimase zitta. Appassionante fu lo spoglio delle schede, via via che i voti venivano contati, talora sembrava che i partiti governativi dovessero farcela, talaltra no. Al tirare delle somme, non ce la fecero per un pugno di voti, poche decine di migliaia su un totale di oltre 27 milioni. De Gasperi si aggirava nel suo studio al Viminale borbottando: « Ah, quella Luce, quella Luce... ». Questa volta il colpo mancino è venuto dal cancelliere tedesco Schmidt. Si sospetta che lo abbia fatto tenendo d'occhio le elezioni che si terranno nella Germania a ottobre: lui, socialdemocratico, vuole dimostrare di essere più anticomunista dei rivali democristiani. Sia legittimo o no il sospetto, resta il fatto che l'esponente comunista Armando Cossutta ha avuto buon gioco e applausi anche dai non comunisti quando ha detto che da questo episodio bisogna trarre « la convinzione che l'Italia ha bisogno di un governo diverso. L'Italia non è una colonia: è un paese libero e democratico ». Come si fa a dargli torto? E che serve ritorcere che l'Unione Sovietica tratta peggio che se fossero colonie i Paesi legati a lei col trattato di Varsavia? Prontamente i nostri comunisti o eurocomunisti, chiamateli come più vi piace, risponderebbero «Ma alla Russia chi ci pensa più? ». E nel caso che un giorno l'Italia venisse a trovarsi estromessa dall'alleanza atlantica e neppure l'Unione Sovietica la volesse alleata anche per i tre motivi indicati dal lettore Salvatore Luchi, ebbene i nostri comunisti avrebbero la battuta pronta anche allora, e sarebbe di grande effetto popolare: «L'Italia farà da sé». Dalle Alpi alla Sicilia sarebbe tutto uno scroscio di applausi, non ne dubito. Già mi pare di vedere piazze rigurgitanti di gente che con orgoglio grida: « Sì, l'Italia farà da sé ». Forse ai dissenzienti non sarà permesso esprimersi pubblicamente, ma nessuno potrà impedirgli di pensare che è una mala sorte trovarsi soli e abbandonati da tutti nel mondo di oggi; soli e condannati all'autarchia economica, politica e culturale; e che porta male contentarsi di vivere di belle frasi e di applausi.