Venezia: arte dove sei? di Marziano Bernardi

Venezia: arte dove sei? Venezia: arte dove sei? (Segue dalla 1* pagina) bre, l'esposizione potranno dire d'averla «vista». Ma in questa gigantesca trama organizzativa, che palesa perfino ingenuamente l'orgoglioso impegno di buttare a mare tutto il già fatto per costruire sulla tabula rasa l'edificio adatto ad una concezione assolutamente diversa di rapporto tra l'opera d'arte e il suo fruitore secondo un vario grado di comprensività, che cosa c'è davvero da «vedere» di artistico nel senso che secoli di esperienza hanno dato a questo aggettivo? Per rispondere è giocoforza adattarsi a una totale revisione del suddetto rapporto. Bisogna convincersi che le parole «pittura», «scultura», per sterminate schiere di «operatori visivi» che questa Biennale ha voluto privilegiare nei confronti d'altre che a ragion veduta sono state escluse (Guttuso, per fare un esempio, è qui, con pochissimi altri, una mosca bianca), non hanno più il significato ch'ebbero per 1500 anni nella civiltà occidentale. Sono parole che non si adattano più ad una realtà che si vorrebbe dire «in divenire» se non fosse già «in atto». Per capirle, queste parole, per amarle ancora — lo diciamo con sconfinata tristezza — forse dovremo chiuderci nella storia, ultimo riparo dell'uomo civile, sfuggendo la cronaca, dannazio¬ ne dell'uomo contemporaneo. Un critico che ha dato il suo consenso alle cosiddette performances (si svolgono in questa Biennale), ha scritto l'altro giorno: «Quanto all'arte, non sembra parola da usare più per queste forme espressive e documentarie dove la espressione cresce sulla documentazione e viceversa». E' la pura verità, anche se amara, almeno per noi. Dunque, non cerchiamo «arte» né ai giardini né negli altri luoghi citati della Giudecca. Cerchiamo delle esperienze, dei segnali, degli avvisi di inquietudine, dei comportamenti individuali che esulano completamente da qualsiasi contemplazione estetica. E sarebbe infine imprudente lasciarsi trascinare nell'equivoco, cioè nel sospetto di una colossale truffa collettiva ai danni dell'arte. Non si reca danno ad una cosa che non esiste più. E questa inesistenza è lo spettacolo primo della «B 76». Su gradi diversi il panorama è uguale. Eccolo, al centro del padiglione tedesco uno degli «operatori visivi» più celebri del mondo. Eccolo assalito da turbe di intervistatori, per i quali firma il catalogo con le sue fotografie, pastrano e cappelluzzo. E' il grande, grandissimo kolossal Joseph Beuys, che ha a lungo discusso con Klaus Gallwitz la collocazione del suo capolavoro. Questo è una stele di ghi¬ sa altissima, con in cima una piccola testa umana. Ai piedi della stele stanno 4 bidoni per spazzatura di ferro arrugginito; dietro c'è un mucchio di calcinacci. Le pareti del salone sono screpolate come per effetto di uno scoppio. L'opera ha per titolo «Fermata del tram». Pare — scrive il Gallwitz — che il «monumento» voglia indicare il ricordo dell'artista di una fermata del tram nella sua città natale di Kleve. Su Beuys si sono già scritte centinaia di pagine di critica. Non saranno tutti in malafede questi critici, che tuttavia fanno a meno di descrivere — come qui è stato fatto — il modo con cui egli palesa i suoi straordinari pensieri. Altro artista famoso, alla Giudecca, è Michelangelo Pistoletto. Egli espone una xerigrafia su alluminio di centimetri 20 per 40. Sulla targa, appesa con una catenella, è scritto «Silenzio Vettor Pisani». Sembra che l'opera si riferisca ad un «plagio» che risale, nientemeno, da Vettor Pisani a Marchel Duchamp, del quale, come tutti sanno, furono celeberrimi i «silenzi». Anche in questo caso il pensiero è di una profondità incommensurabile; e l'opera è di un godimento artistico ineffabile. Da Beuys a Pistoletto: due simboli di quanto, per una larghissima parte, espone la Biennale. Marziano Bernardi

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