Sotto le forbici del fisco di Nicola Adelfì

Sotto le forbici del fisco Yoi e noi Sotto le forbici del fisco Sulla busta c'è il timbro postale di Borgovercelli e al posto della firma trovo scritto «I venti del boccali-no». Sono operai, la sera si riuniscono intorno a boccali di vino, e a volte parlano anche di me, di quel che scrivo. Ed eccoli pormi ora una domanda: «Una conflittualità così permanente e riottosa potrà essere eliminata dandoci la possibilità di lavorare in pace?». Alla domanda segue un «sì» condizionato: «A noi operai interessa poco che i ricchi abbiano quattro macchine, ville, gioielli, ogni ben di Dio. A noi che paghiamo al fisco fino all'ultima lira, interessa invece che tutti paghino secondo i loro guadagni. Se l'Anonima sequestri riesce a incamerare miliardi sapendo dove trovarli, è mai possibile che il governo non possa far pagare il dovuto a tutti? E che lo faccia solo con noi, sempre con noi? Siamo operai incolti, e spesso troviamo sulle nostre strade qualcuno che cerca di incantarci con la vecchia storia di Menenio Agrippa. Però non attacca più». Nella seconda parte della lettera è scritto che anche io, con i miei articoli, ho persuaso «i venti del boccalino» a votare comunista: a un regime, il democristiano, corrotto e protettore dei ricchi, essi preferiscono un comunismo che mandi in carcere gli evasori del fisco, chi sciopera a sproposito e i criminali, a cominciare dalle brigate politiche che sequestrano persone, rapinano, uccidono. Il tono della lettera si mantiene sempre cordiale. Tutto sommato, coloro che mi scrivono da Borgovercelli sono persone tranquille, scioperano controvoglia, detestano la criminalità comune e le violenze politiche, e per la prima volta si sono decise a votare per il pei. Senza entusiasmo tuttavia. Diciamo per legittima difesa. Se un operaio si vede portare via dalla busta paga decine di migliaia di lire per ritenute fiscali, è naturale che si faccia cattivo sangue pensando ai moltissimi, assai più ricchi di lui, che frodano il fisco da sempre, e sempre impunemente. Come vogliamo chiamare quell'irritato umore dell'operaio? Odio di classe? O non è più esatto definirlo sete di giustizia? E se quella sete viene esasperata, può forse diminuire nei luoghi di lavoro quel clima di conflittualità «permanen- te e riottosa» che tanta parte ha nella degradazione della nostra economia? Hanno dunque ragione «i venti del boccalino»? Se mi metto nei loro panni, non so proprio dargli torto. E purtroppo, al punto in cui siamo, la lotta all'evasione fiscale diventa sempre più difficile: cospicue ricchezze sono emigrate all'estero, perciò fuori di portata dal fisco, e formidabili baluardi difendono ricchezze non meno cospicue qui in Italia. Tralascio i motivi. Osservo solo che negli ultimi tempi cervelloni dell'economia vanno progettando nuovi sistemi per togliere altro denaro ai contribuenti. Però sempre nella stessa direzione, i lavoratori dipendenti. Non lo fanno di sicuro per cattiveria classista, ma perché il solo gregge esposto alle forbici del fisco sono coloro che hanno redditi fissi, soprattutto stipendi, salari, pensioni. Va da sé che se la tosatura fa sanguinare, la reazione è istintiva: ì lavoratori votano comunista senza starsi a domandare quale sarebbe la loro condizione sotto un regime comunista. E' un modo di reagire semplicistico? Certamente. Ho ben presente che non sono riducibili a una matrice unica, cioè all'evasione fiscale, le cause che concorrono a farci un Paese malato; e però mi dico che dove la bilancia del fisco non è truccata, nella Scandinavia per esem:'^, gli scioperi sono rari, gh estremismi non attecchiscono, le crisi economiche vengono superate. Più in generale, si può dire che la sfacciata evasione fiscale è uno dei sintomi del malgoverno democristiano. Qui giunto, mi pare giu¬ sto dare la parola a un altro lettore, democristiano, il signor Piero Marchino di Torino. Mi scrisse due giorni prima delle elezioni, a proposito di un mio articolo. Della sua lettera riassumo i concetti essenziali. «Più che non credere nel pei, lei non crede nella de e nella sua possibilità di rinnovarsi». Il lettore ammette che l'attuale de si presenta «inerte, vetusta, corrotta», ma ritiene sia possibile farla diversa e migliore «intervenendo dall'interno ». In che modo? Mi scrive il lettore: «Il partito è una entità astratta, dove ciascuno ha una propria linea, proprie ideologie, propri programmi». Si tratta di un patrimonio «interpretato e gestito da uomini» in carne e ossa: Zaccagnini, Moro, Fanfani e cosi via. E da essere qualcosa di astratto, il partito diventa così una cosa concreta: «Sono gli uomini che contano, e contano in quanto hanno peso e ispirano o no la fiducia». E allora, se certi uomini della de «hanno deluso le nostre aspettative, perché non chiamarne altri, validi e presenti nelle liste, sebbene scomodi alla stessa de in quanto estranei a correnti e intrallazzi?». In breve, gli elettori possono cambiare dall'interno la de dando consensi a uomini nuovi e ingiungendo loro di «rinnovare il partito, di dimostrare finalmente forza, coerenza e onestà». Mettendo insieme queste e altre lettere, di elettori comunisti o democristiani o di partiti diversi, se ne può concludere che, nonostante le apparenze confuse e contraddittorie, è possibile cogliere tra gli italiani alcune fondamentali convergenze: più giustizia, più onestà, più coerenza nella gestione dei pubblici poteri. Ora mi domando io: riuscirà la classe dirigente politi» co a incamminarsi sulla strada indicata dagli elettori il 20 giugno? In teoria, si può fare. Però sera solo la pratica, la realtà che vedremo formarsi sotto i nostri occhi a dirci se sarà fatto. Oggi come oggi, in tutta coscienza non me la sento di essere ottimista; e tuttavia rifiuto ogni forma di preconcetto pessimismo. Lamentarsi che tutto va male, che non c'è niente da fare, e non fare niente affinché qualcosa cominci ad andare bene, è come fare uso di una droga pesante, diventarne schiavo, e rendersi così un peso morto, un elemento inquinante della nostra società. di Nicola Adelfì,

Persone citate: Agrippa, Fanfani, Moro, Piero Marchino, Zaccagnini

Luoghi citati: Italia, Torino