Biennale di Venezia: arte dove sei?

Biennale di Venezia: arte dove sei? Le esperienze e le inquietudini degli operatori visivi di "B 76 Biennale di Venezia: arte dove sei? (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 17 luglio. Per ventinove mesi — questo computo di tempo è del presidente stesso della Biennale di Venezia, Carlo Ripa di Meana — ci empirono la testa di programmi, discussioni, risse politiche, posizioni di prestigio, rivalità personali, lottizzazioni politiche, per dare dimensioni e forma al nuovo corso della vecchia prestigiosa istituzione veneziana, nel campo artistico la maggiore del mondo, col fermo, fermissimo, addirittura feroce, proposito: ammazzarla, seppellirla, in modo che di essa non sopravvivesse neppure il ricordo. E lo sbadiglio dei lettori di quotidiani, rotocalchi, riviste di cultura, dei fruitori radiotelevisivi fu paragonabile soltanto alla ingarbugliata capziosità delle interminabili teorizzazioni naufraganti in fiumi d'inchiostro e mari di parole. Ora il verboso pachiderma ha partorito la sua creatura. Dopo tre giorni di affannata e affannosa « vernice », che ha visto, tra rincorse stremanti sotto la sferza di un sole implacabile, cronisti e critici lottare con organizzatori e tecnici, con operai e manovali, per strapparsi le inutili primizie di oggetti celati in casse chiuse o in sale sprangate per lavori in cor¬ so, domani si inaugura ufficialmente la « B 76 », dato che, per meglio ribadire la condanna di un passato di quasi ottant'anni, alla Biennale di Venezia si è voluto negare persino il suo numero d'ordine, una numerazione che era cominciata nel 1895. Qual è la novità più evidente, fisicamente tangibile e, ahimè, faticosamente sperimentabile dal visitatore che non si accontenti di una informazione superficiale? E' quel decentramento, quel concetto di « coinvolgimento » di Venezia tutta intera — e non soltanto di Venezia città, ma del suo territorio, della sua regione, e d'altre regioni e addirittura di Paesi diversi —, in un fervore di informazione e comunicazione culturale non più periodico ma di continuo in atto come un fenomeno intellettuale, da definirsi popolare, o, se si preferisce, « democratico ». Un concetto che fin dai primi accordi programmatici fu alla base della volontà di rinnovamento. Qualche lettore ricorderà che si parlò allora di « dilatare » la Biennale fin nelle sedi industriali di Mestre e di Marghera. Ricorderà i « murali » esposti nel '74 in Campo San Polo e in Campo Santa Margherita; ricorderà il progetto di chiudere definitivamente, e ma¬ gari di demolire (andando incontro a non facilmente superabili difficoltà d'ordine internazionale), la trentina di padiglioni stranieri ai giardini di Castello che son proprietà d'altrettanti Paesi, compreso naturalmente quello italiano; e se questo proposito fi> poi abbandonato, sì che oggi tutti questi padiglioni sono riaperti e funzionanti, lo si deve al buon senso d'alcuni dei componenti del Consiglio direttivo della Biennale, soprattutto, salvo errore, del prof. Pietro Zampetti, già organizzatore di memorabili mostre storiche veneziane. Ma l'idea del « decentramento », della ricerca per tutta la città di « luoghi deputati » dove mostrare arte, rimase il chiodo fisso della maggioranza degli organizzatori. Secondo noi è un errore che vorremmo definire « logistico ». Contrariamente a quanto sostengono gli urbanisti, che in questa città scorgono la ideale ripartizione del percorso pedonale e del trasporto per via d'acqua, Venezia è una città faticosa specialmente per il forestiero; per di più, una città che, usando mezzi economici o le proprie gambe, richiede tempo per gli spostamenti. Considerate ora com'è suddivisa la Biennale. Ai giardini, in cui una volta si concentrava tutta la esposizione, sì da fornire una visione d'insieme da percepire globalmente, c'è nel padiglione italiano il grandioso omaggio all'arte spagnola nel quarantennio della dittatura di Franco, «Avanguardia artistica e realtà sociale 1936 1976». C'è la vasta sezione (una delle più interessanti della Biennale) che illustra la relazione dell'ambiente con l'arte dal 1915 al 1976. C'è, in un buio assoluto I donde sgorgano musiche laceranti, una documentazione risolutamente politicizzata a sinistra di «Ambiente come sociale», ininterrotta ed ossessiva proiezione filmica e televisiva. Disseminati nel parco, poi, di qua e di là del Canale di Sant'Elena, i 38 padiglioni stranieri, spesso dedicati ad un solo artista, che indifferentemente potrebbe essere trasferito da un padiglione all'altro, tanto simile è divenuto il linguaggio che un tempo si diceva «artistico», ed ora, diventato una cosa informe nella sua uniformità, si preferisce chiamare «informazione visiva». Se non che questa non è che una parte della Biennale. Chi vuol vedere gli 80 e più espositori imprigionati in lugubri stands come galeotti nelle celle deve imbarcarsi per la Giudecca, dov'essi, negli ex cantieri navali, sono raggruppati sotto il titolo «Attualità internazionali 1972 - 1976», a fornire — con l'eccezione di Guttuso, di Aillaud, del danese Billgren, dell'inglese Davies, di Lucio Fanti, di Hélion, di Hucleux, di Mondino, di Music, dell'americano Palmore, di Anne e Patrick Poirier, di Raysse, di Recalcati e di qualche altro — uno dei più desolanti spettacoli che le sedicenti avanguardie possano offrire. Non si creda con ciò d'essere a buon punto del viaggio. Passando dalla Giudecca alle Zattere ci attende nei saloni degli antichi magazzini del Sale, già utilizzati per l'esposizione fotografica di Mulas, la mostra dei problemi dei centri storici e del suburbio in Europa e in America. E già che l'isola di San Giorgio non è lontana, è doveroso lo sforzo d'approdarvi per compiacersi di un'ennesima testimonianza dell'opera fotografica di Man Rey, organizzata dal critico Janus, e di quella del designer applicata alle forme del vetro. Ancora un vaporetto e torneremo non lontano dai giardini, nella ex chiesa di San Lorenzo, per la rassegna del razionalismo e dell'architettura in Italia tra le due guerre, un tema che ci domandiamo perché non sia riservato alla triennale di Milano. Forse un po' costanti ma sempre vivacissimi di spirito ed avidi di imparare, ci porteremo allora in p.zza San Marco, al museo Correr, a rinfrescarci la me¬ moria circa la attività dal 1955 al 1975 dell'architetto e designer Ettore Sottsass Junior. Infine, poiché un viaggetto sul Canal Grande è sempre gradevole anche con i 32 gradi di calore di questi giorni, a Ca' Pesaro la mostra del movimento tedesco Werkbund 1907, origine del designer, potrà chiudere la fruttuosa passeggiata culturale. Se si voleva il decentramento della Biennale, se ci si proponeva di coinvolgere in una dozzina di mostre una cittadinanza intera (vedremo poi come risponderà), non c'è dubbio che il piano logistico è perfettamente attuato. Resta un piccolo problema, non trascurabile in una città dove sedersi davanti ad un bitter Campari con inevitabile musichetta costa 1400 lire, e dormire in una camera decente il prezzo è in proporzione. Chi vuol vedere, non con l'intontimento di un ebete, ma con un minimo di intelligenza questa Biennale senza liquefarsi in su-. dorè, impiega una settimana piena: se basta. Non sappiamo, ripetiamo, quale sarà il parere dei veneziani. Riteniamo comunque che pochi italiani, pochi stranieri, quando si chiuderà il 10 ottoMarziano Bernardi (Continua a pagina 2 in quinta colonna)