Fermo atteggiamento contro il fascismo di Giuseppe Galasso

Fermo atteggiamento contro il fascismo Giovanni Amendola filosofo Fermo atteggiamento contro il fascismo .'/ prof. Giuseppe Galasso continua la rievocazione della Qgura di Giovanni Amendola nel SO- anniversario della morte del filoso/o e uomo politico. Napoli, 25 aprile. Al momento in cui Amendola, con l'assunzione dell'ufficio di corrispondente romano de «Il resto del Carlino», lasciò sii studi di filosofìa per un'attività che lo doveva necessariamente coinvolgere nella lotta politica, non si può dire che egli avesse una posizione già chiara e definita nel campo in cui avrebbe ora esercitato quell'attività. Certamente era insoddisfatto della qualità delia vita politica italiana del periodo giolittiano e si sentiva fuori delle ideologie e dei raggruppamenti politici allora prevalenti. Nel 1910 parlava di «quella volgare gazzarra che è la politica democratica nei Paesi latini, e soprattutto in Italia», e. con tono non certo amichevole, della «nostra democrazia radicaloidc e socialistoide». E, quanto al governo e a Giolitti, dichiarava nello stesso anno: «L'Italia così come è oggi non ci piace», perché — diceva — «i nostri valori intellettuali, morali e politici non sono quelli degli uomini che oggi costituiscono la clas se dirigente», ma « stanno su un livello sensibilmente più elevato», mentre «un più alto concetto dei fini propri della convivenza sociale in genere ci fa disprezzare e rimpiangere vari decenni di vita politica e amministrativa, che hanno tradotto in fatti, talora irrimediabili, di vita pubblica la pochezza morale, la povertà fattiva ed intellettuale della classe dirigente». Ciò portava Amendola a consentire con le critiche che liberal-conservatori e nazionalisti rivolgevano all'Italia giolittiana e a Giolitti e che in alcuni casi esprimevano in posizioni politiche non sempre apprezzabili anche istanze morali e civili degne di una più alta espressione. Per certi versi Amendola era, da questo punto di vista, ancora più aspro di quanto non fosse il Croce. «Amendola — ha scritto con qualche ragione il Carocci — si trovò a militare, per così dire, a destra di Croce». Ma già allora alcuni elementi prefiguravano gli atteggiamenti posteriori dell'uomo. Con una intransigenza che lo porta ad un riferimento carico di allusioni e di potenziali sviluppi giudicava negativamente il convegno nazionalista del 1910. «Vè fra ì nostri nazionalisti — scrisse allora — troppa condiscendenza a prendere su di sé i pesi della storia Dov'è tra essi uno stato d'animo che assomigli, sia pur lontanamente, a quello degli operai organizzati prima del '98? Al contrario, io li sento già circonfusi di atmosfera parlamentare». Più ancora, egli si rese conto ab-1 bastanza presto della difficoltà di mettere d'accordo, nella sostanza, liberalismo e nazionalismo. La sua istintiva avversione per D'Annunzio espresse subito la sensazione di questa difficoltà. m«dtnelpclGobetti scrisse, con una delle sue solite acute intuizio- ni, che «l'atteggiamento di Amendola di fronte al fasci- smo non è che un aspetto e 1 una conclusione del suo aniidannunzianesimo». E invero la posizione ostile a D'Annunzio conteneva in potenza molti degli sviluppi successivi del pensiero e dell'azione di Amendola. Egli non poteva accettare il poeta che. secondo le sue parole, «accarezzò e adulò l'Italia dei parvenus industriali e trafficanti, degli avidi, e ingordi accumulatori di ricchezze». Più tardi, ritornando sui suoi atteggiamenti e giudizi giovanili, Amendola avrebbe confermato la sua ripulsa del metodo e dell'azione di Giolitti, confermando anzi che questi aveva, a suo avviso, «irrigidita ed isterilita la democrazia in una pratica bigotta e scontrosa, che gettava inevitabilmente fuori dell'ufficialità " democratica " molli giovani desiderosi di provare e riprovare, in piena libertà di spirito, sui medesimi testi classici della critica antidemocratica, i principii» di una vita politica moderna. Si tratta di un giudizio tutt'altro che privo di fondamento, nel quale si riflettono probabilmente i frutti delle sue esperienze posteriori più ma ture. Perciò poteva scrivere, nel 1923, che la sua esperienza aveva «un certo valore sintomatico. come quella di uno che si è formato nella cultura idealistica e che ha trascorso anni a riflettere sulla critica antidemocratica». Di questa critica, aggiungeva, «resta in piedi qualcosa che si attacca alle soluzioni concrete della democrazia, ma che non riesce a scalzare i principii». E qui possiamo avere, nella dichiarazione di Amendola, una fiducia completa. In nessun periodo le dimensioni contingenti della polemica sui principii e della lotta politica ebbero mai ad anche intaccare la spontanea prò pensione del suo pensiero alla democrazia. Si rivelava qui un dato di fondo della sua personalità e della sua visio- ne della vita. E allo stesso modo e nello stesso senso va notata e ritenuta la sua affer- 1 mazione nel 1912. secondo cui «non vi è Faese, si può dire, in cui le sorti della politica dipendano da quelle della cultura politica come qui da noi». Se per lui coincidevano etica e biografia, il vivere con mdbrctlvsla vita morale, coincidevano pure politica e cultura politica. L'Amendola maturo è già | slargamente presente in queste | pposizioni giovanili. | rIl passaggio al Corriere del I lla Sera di Luigi Albert ini in-1 dfluì profondamente sulla for-1 nmazione e sulla vita di Amen-1 adola, ma non r.e alterò le ten. denze fondamentali, che andarono rapidamente maturando sotto la sollecitazione degli avvenimenti che seguirono alla prima guerra mondiale. Deputato nel 1919, ministro delle colonie con Facta dalla sttcmtsfine di febbraio del 1922, egli j ptenne, durante il «biennio ros. | pso», una posizione di polemi-1 dca contro gli «opposti estre-1 mismi» e contraria, nello stes. so tempo, a coloro che. come | Giolitti, si erano opposti al-1 dl'entrata dell'Italia in guerra. Nel 1911 egli era stato inter- \ ventista su una linea largamente assimilabile a quella di Albertini. ma alla fine della guerra, con lo stesso Albertini, era già lontano da coloro che insistevano sulla difesa rigida delle condizioni fissate per l'ingresso in guerra dell'Italia nel Patto di Londra. Egli salutò, invece, con entusiasmo il Patto con cui a Roma, nella primavera del 1918, si auspicava la dissoluzione dell'Austria-Ungheria a favore delle nazionalità che nell'Impero asburgico non godevano dell'indipendenza. E' vero che queste posizioni erano comuni a molti ambienti conservatori e naziona. cl.listi e che non vi era alcun | raccordo fra questi ambienti e quelli radicali e bi.ssolatiani ] più legati all'interventismo j democratico. Ma l'apertura nei confronti del Patto di Roma rimaneva importante. Era una ulteriore differenziazione dalla destra liberale e precludeva ulteriormente ogni possibilità dì intesa col futuro fascismo. . .^-™^,s_'??MicIJ .ch?,ml:l zialmente dinanzi a! fascismo | anche Amendola, come tanti | .1 altri dei migliori liberali del|ZV^P,°-^0lì ne»[„°Va^ne naturale la reazione alla spiti- £J*2 ?„Ce™*" e,a q"6"^ ChC appariva come la debolezza del governo nel fronteggiarla. Nel novembre 1920 lo troviamo a scrivere, in riferimento al governo Giolitti, che «una certa attenuante alle abdicazioni compiute di fronte all'attacco bolscevico si possa trovare soltanto nell'avere poi permesso alle forze contrapposte di reagire liberamente». Senonché, proprio in questo torno di tempo Amendola si andava separando da Albertini e dal Corriere della Sera e si andava accostando al Nitti. divenendo, con que st'ultimo. la punta più precoce dell'opposizione libera'.e al fascismo montante. Nell'estate del 1922, benché continuasse ad accostare fra loro l'estremismo e la violenza fascisti con quelli di sinistra, egli er?. ormai profondamente convinto che il pericolo vero e maggiore era a destra e che tra fascismo che ci si do v.eva opporre, se si voleva davvero mantenere in piedi il 1 redime di libertà. a . e o e o e e a i i o i a a d Pur partecipando, quindi, e; anche attivamente, agli sforzi : per cercare una qualche solu-1 zione della crisi costituzionale che in quell'estate precipitava verso la catastrofe. Amendola adottò un atteggiamente di fondo sempre più rigido nei riguardi di Mussolini e del suo movimento. E' I perciò con fondamento che, ! pochi giorni dopo la marcia I su Roma, che lo aveva trova-1 to ancora ministro con Facta, poteva scrivere al suo amico don Mattia Farina: «A me non sfuggi mai l'importanza e] la gravità del movimento fascista e mai mi feci promoto ; re personalmente di soluzioni politiche che conducessero i fascisti al governo.. Quando ! l'ora critica suonò, senza che i si fosse provveduto a risolve-1 re la situazione, non potevo dissociarmi dai colleghi del j gabinetto nel compimento di un doloroso dovere. Finché la • Corona non ebbe tracciato la sua via, i ministri del re non potevano non difendere lo Stato». In effetti, egli era sta- ' to dell'avviso di mettere il re' dinanzi a una crisi di governo che lo costringesse a una proe | va di forza con la minaccia fascista al regime. Ma le spe ranze di risolvere con un compromesso non troppo pericoloso il problema di assorbire su un piano costituzionale l'ormai incontenibile ondata fascista si erano allóra estese fin troppo largamente e il re aveva ben altre preoccupazioni che quelle di Amendola. A quest'ultimo non re- stava perciò che ricordare al Farina che il discorso da lui tenuto a Sala Consilina il pri mo ottobre 1922 sarebbe ri- masto a testimoniare del suo atteggiamento. In quel discorso egli avevadetto che le forze democrati-che del Mezzogiorno avevano a : «una grande, storica funzione i di equilibrio e di conservazloa | ne politica da esercitare», - analoga a quella che avevano o svolto nell'immediato dopo-a guerra. «E' nostro compito — -, nveva aggiunto — tener fer mo e resistere, onde il resto d'Italia abbia tempo di equilibrarsi e abbia modo di sfuggire ai pericolosi estremi. Oggi, come allora, noi ringraziamo ti destino che ci offre il privilegio di un così alto dovere verso la patria nostra e ci disponiamo a compierlo, a co sto di sacrificio, animati dalla più alta speranza, tutto inte ro. fino all'estremo limite del le nostre energie, tino alla de dizione della nostra vita» E nella lettera al Farina aveva affermato di avere «la co- scienza di non aver demeritato della fiducia della nostra terra salernitana, che ho cercato di rappresentare come meglio ho potuto in Parlamento». Perciò, aveva aggiunto, «se la mia provincia mi resterà fedele, resterò al mio posto per continuare a com piere il mio dovere, nel caso diverso vadano al Parlamento altri di me più degni». L'uno e l'altro augurio quello del discorso e quello del'a lettera, si sarebbero rea ijzzati e la fedeltà della sua provincia gli sarebbe stata of- ferta in pieno cosi come in pieno sarebbe stata a lui richiesta la dedizione della vita. Giuseppe Galasso