Economia e fascismo di Giuseppe Galasso

Economia e fascismo Ciò che cambiò nel "ventennio,, Economia e fascismo Le forze sociali che sposarono la causa del regime sapevano quello che facevano e continuarono a "salire" dopo la guerra Considerali tutti gli clementi del caso, la riflessione più credibile spinge, per il Mezzogiorno, a calare il ventennio fascista nell'arco di una vicenda di potere assai più lunga per la suo durata. Chi vuole abbracciare quest'arco nella sua interezza deve pensare a tutto il periodo che si apre con le elezioni del 187-4, con le quali si preparò l'avvcnlo al potere dell'opposizione alle forze clic reggevano lo Stalo unitario dal suo inizic nel 1861, e che si chiude, a seconda delle varie regioni, fra gli Anni Cinquanta e gli Anni Sessanta del nostro secolo, quando la riforma agraria, e soprattutto le trasformazioni profonde subite dalla società e della vita politica nazionale determinarono il definitiva declino della vecchia classe dirigente. Dopo aver trionfuto ottanta o novanta anni prima, questa classe era sopravvissuta a tutto: a Giolitti e ai primo socialismo, alla prima guerra mondiale e al successivo «biennio rosso», al fascismo c alla crisi mondiale del 1929, c persino ad una seconda guerra mondiale e al càmbio di regime che ne segui. Le sue storie si erano chiamate: emigrazione di massa, destino agrario del Mezzogiorno, politica mediterranea e coloniale dello Stato italiano, degeneratone burocratica di questo stesso Stato, meridionalizzazione dell'alta burocrazia, esaltazione della speculazione edilizia e della rendita fondiaria nelle città, sostegno ed espansione di vecchie e nuove attività della piccola borghesia professionistica, difesa sino all'ultima possibilità di un tipo antiquato di patti e di contratti agrari, passività e acccttazione subalterna degli indirizzi dati alla vini e all'economia nazionali dalle grandi forze economiche e politiche prevalenti nella metà settentrionale del Paese, rinunzia a gestire in forma diretta c con proprie autonome iniziative le stesse disponibilità finanzarie che si ritrovavano nelle regioni meridionali dopo l'unità, monopolio e gestione clientelare del potere municipale e del rapporto col potere centrale. Quando si parlu di «questione meridionale» e si dimentica tutto ciò, ne vengono fuori quelle visioni del Mezzogiorno come vittima inconsapevole e incolpevole del freddo c crudele Settentrione, che proprio i meridionali più responsabili debbono respingere e hanno sempre respinto per acquisire intera coscienza dei problemi di fronte a cui essi si sono trovali e si trovano. La «questione meridionale» può essere, per un certo aspetto, la «nascila di una colonia», come ha preteso una certa cultura di contestazione più rumorosa che robusta. Ma. per un altro aspetto, e la conquista del Mezzogiorno da parte di quei gruppi meridionali estremamente eterogenei, municipalistici e tradizionalistici ai quali andò il potere nel Sud dopo gli sconvolgimenti apportali per una quindicina di anni dalla spedizione garibaldina e dalla unificazione nazionale. Proprio perché adombrava entrambi questi aspetti) la formula di Gramsci — che definiva il «blocco storico» dellu classe dominante nell'Italia unitu come un'alleanza fra industriali del Nord e agrari del Sud — conserva sempre una sua certa validità, per quanto schematica essa sia e possa apparire e per quanto del tutto insufficiente essa risulti a dare un'idea precisa di un fenomeno dui tanti molteplici aspetti, nonché' per quanto forzale o inaccettabili siano, oltre lutto, le conseguenze politiche che Gramsci credeva di poterne far scaturire. Le forze che promossero nella restante Italia il fascismo e se ne avvalsero ai fini di una radicale reazione e di uno sforzo di annientamento delle tendenze rivoluzionarie manifestatesi nel «biennio rosso» erano più recenti nella loro formazione di quelle che avevano trionfato nel Mezzogiorno u partire più o meno dalle elezioni del 1874. Si trattava, infatti, di forze che erano scaturite o si erano assestale definitivamente con le trasformazioni in senso capitalistico prodottesi nell'Italia del quindicennio giolitiiano, durante cioè i primi anni di questo secolo: la grande industria,, il capitale finanziario, un'agricoltura in gran parte rinnovatasi con la gestione di grandi aziende. A queste forze non interessava la conservazione come tale: interessava, invece, purché assumesse una certa direzione, lo sviluppo stesso del Paese. I loro gruppi più dinamici c più forti profittarono subilo delle opportunità offerte dulia vittoria del fascismo. E non se ne avvalsero solo per schiacciare i «rossi», i «sovversivi», gli uomini e i gruppi aspiranti alla «rivoluzione» o anche a «riforme», che potevano aprire la slradu u sviluppi j sempre pericolosi per il loro| pcmsrzlinmtoqfndppd1vmrsscnqnsctzvcgsltmtdctrrcngngmfdtBlSdtpilzpmzubsisfttpcufdlmn predominio. Se ne avvalsero anche per stabilire la propria preminenza su una parte delle stesse forze che componevano il loro schieramento. Le concentrazioni oligopolistiche o monopolistiche dell'industria, della finanza, della distribuzione commerciale c il definitivo cedimento del settore agrario rispetto a quelli industriale, mercantile e finanziario sono fenomeni che nell'Italia settentrionale, si producono esattamente durante il periodo fascista, c specialmente, poi. negli anni seguiti alla grande crisi economica mondiale del 1929. Commette, pertanto, un gravissimo errore storico chi afferma che l'economia italiana durante il ventennio fascista rimase più o meno immobile, e questo soltanto perché le cifre di alcune delie maggiori produzioni non furono nel 1938 superiori a quelle del 1913. Se stabile rimanevo la quantità (e anche questo e vero soltanto sino ad un certo punto), mutava fondamentalmente l.i qualità dell'organizzazione produttiva e ne scaturivano conseguenze economico-sociali e politiche di primissima grandezza per la storia del Paese. La Fiat, l'Olivelli, la Pirelli, la Montecatini — per fare soltanto i quattro nomi che per primi vengono alla mente — diventano i colossi dell'oligopolio o del monopolio, che noi abbiamo conosciuto, proprio in quel ventennio. Nello stesso ventennio raggiunsero la loro piena maturità le grandi industrie elettriche, dall'Edison alla SME; conobbero la prima privilegiata giovinezza quelle telefoniche; nacquero le prime catene di grandi magazzini popolari (come la Standa e l'Upim) e si affermarono le grandi industrie della trasformazione dei prodotti alimentari, specie in scatola. Ben più. Nacque allora, con Tiri, lu prima grande industria di Stalo o a partecipazione statale, dando vita ad un groviglio di interessi e a nuove forme di proprietà e di gestione di cui soliamo oggi stiamo vedendo tutte le complesse e gravi conseguenze. Persino il settore lessile — il pioniere dell'industrializzazione moderna, anche il primo a iniziare nel quadro di quest'ultima una parabola discendente — ebbe allora una fase di grande slancio e di riassetto. Altro che immobilità, dunque! Le forze che sposarono ira il 1921 e il 1922 la causa del fascismo sapevano bene quello che facevano, anche se poi ulcune tra esse se ne sarebbero avvantaggiale lanlo più di altre. E. soprattutto, quella parte di esse che più si giovò del fascismo uvrebbe poi conlinuaio lu sua fortunatn carriera ben olire il dopo la seconda guerra mondiale una costarne posizione di preminenza quale in precedenza non sempre aveva toccalo. E' su questo piano, innanzi tulio, così vario e articolalo che va impostalo il discorso della continuità a proposilo del fascismo: guardando al prima e al dopo di quel regime, guardando alla diversità Ira le due parli del Paese, guardando alle di- versila interne a ciascuna di queste due parti, distinguendo fra società e Stato, fra politica ed economia, fra amministrazione e vita civile in generale. Ed è cosi che appare chiaro come di continuità si debba parlare innanzi tulio per quanto riguarda le forze sociali, prima ancora di parlare delle istituzioni, degli atteggiamenti e dell'azione relativa alle forze politiche considerate come tali. Giuseppe Galasso

Persone citate: Giolitti, Gramsci, Olivelli

Luoghi citati: Italia