Luigi Albertini e il "Corriere,, di Luigi Albertini

Luigi Albertini e il "Corriere,, IL CENTENARIO DI UN GIORNALE Luigi Albertini e il "Corriere,, Nei due anni in cui restò jdal Corriere della Sera come redattore, fra 1921 e 1922, Corrado Alvaro non vide mai Luigi Albertini. Per riconoscere l'immagine del suo grande editore, il giovane scrittore calabrese, inquieto e scontento nelle stanze claustrali e monacali di via Solferino, si recava in Galleria, dove dominava una fotografìa di Albertini ma col vetro gralfìato dal segno di abbasso già indirizzato a chi, qualche anno dopo, avrebbe pagato con la proprietà e con la direzione del giornale la sua resistenza alla dittatura fascista. « Sembrava un ritratto di Arkipcnko »: commentò Alvaro in quello straordinario profilo di Albertini che l'editore Formiggini, la predestinata vittima delle leggi razziali che doveva concludere la sua vita gettandosi dal campanile di Modena, ospiterà nella preziosa collczioncina dei « medaglioni » a fine 1924 e di cui Piero Gobetti stamperà una pagina significativa sulle colonne, già largamente sequestrate o imbiancate, della Rivoluzione liberale, esattamente il 10 maggio 1925. « Tutte le volte che buttavo un'occhiata nel cortile del giornale — continua Alvaro — l'immagine cubista del direttore si mescolava a tutta la bellezza moderna e alla potenza di quelle opere ». In effetti poche grandi opere dell'industria italiana hanno saputo resistere a tutti gli stravolgimenti, le umiliazioni o le deviazioni, come il Corriere della Sera di impianto e di ispirazione albertiniana, il giornale che oggi finisce i suoi cent'anni di vita. Una creazione tipica di un autentico protagonista della rivoluzione industriale dei primi del secolo quale fu Luigi Albertini (non a caso associato da Gobetti a un Giovanni Agnclli, alle solitarie figure di croi del capitalismo). Un giornale come tutti gli altri, il gracile Corriere di Torelli-Viollier, dove Albertini entra, segretario di redazione, negli anni fra Adua e la reazione del '98. Un giornale nato un po' per caso, nei giorni che anticipano la caduta della Destra, ai primi di marzo del '76, con un dichiarato orientamento conservatore, appena meno pronunciato della Perseveranza. Un giornale che fatica a sopravvivere nei primissimi anni, che solo con la crisi di fine secolo sfiora le 60.000 copie, arieggiando a un primo tentativo di trasformazione industriale. Anti-crispino come quasi tutta la borghesia lombarda, diffidente delle imprese coloniali e della « megalomania », ma con pronunciate vene protezioniste, di liberalismo « garantito » dalla mano dello Stato. Nel '98-'99, schierato col governo Pelloux, fìancheggiante il tentativo di restrizione delle pubbliche libertà, nel clima torbido del « torniamo allo Statuto » di «onniniana memoria: il direttore, Domenico Oliva, sta sempre a Roma, non comprende i fermenti dell'ostruzionismo parlamentare, combatte Giolitti, appoggia il « blocco d'ordine ». La sconfitta di Pelloux è anche la sconfìtta di Domenico Oliva, il direttore cui viene censurato o addirittura capovolto, nel giugno Ì900, un articolo di fondo reazionario. Il conservatorismo liberale di Luigi Albertini, con accenti quiritari da destra storica, diventa progressista di fronte alla linea Oliva, non a caso destinata a confluire nel nazionalismo. ★ * Albertini è insieme, dai primi del secolo, direttore e gerente. La gerenza è quella che conta. E' una delega larga e incondizionata della proprietà (una proprietà composita di industriali lombardi, in cui i cotonieri Crespi prendono gradualmente il primo posto), che rimette al direttore-monarca la scelta della linea politica, la nomina dei collatxiratori fondamentali, con qualche eccezione significativa, come il capo della redazione romana. Albertini unisce criteri di efficienza industriale a fermi principi di guida politica. E' imprenditore, ma non è solo imprenditore. Studia le ti|H)grafie del mondo occidentale, introduce al Corriere — di cui fa costruire un palazzo nuovo, modellato sullo schema del Times — le prime rotative moderne, razionalizza un processo di lavoro che lino a quel momento era stato romantico e boulevardier non meno dell'allegro e caotico lavoro redazionale, ai limiti del pittoresco. Crea, Albertini, !a prima redazione moderna in Italia. Qualcosa fra la Compagnia di Gesù e una legione di carabi nieri: diranno i maligni. Fondata su un altissimo spirilo di corpo, su una selezione spietata. Bando agli « a solo », ai residui tenorili di un giornalismo improvvisato e spesso becero: uniformità nello stile, nella grafìa, una certa impersonalità nelle corrispondenze, una cura assidua e struggente del particolare, una lotta implacabile all'errore di stampa, un « no » fermo ai capricci di questo o di quello. Una direzione « monarchica »: appunto. Un direttore sovrano e inaccessibile, quale apparve al deluso e amareggiato Corrado Alvaro. In contatto solo coi colla boratori diretti, ma sorvegliai te il giornale in ogni riga, in ogni più minuto particolare. * * Accanto alla scelta tecnica, che si estende ai settimanali collaterali, che si prolunga nel successo della Domenica del Corriere (concepita come supplemento del quotidiano, come « dono agli abbonati »), una netta e risoluta scelta politica. Nell'Italia giolittiana, Albertini imbocca, non senza asprezze e ingiustizie, la via della lotta senza quartiere a Giolitti: alla visione giolittiana della vita, alla sua apertura a sinistra, alla sua costante manovra di ammordibimento delle opposizioni, vuoi quella cattolica, vuoi quella socialista. E' anticlericale e difensore della laicità dello Stato, con accenti alla Ricasoli. F.' antisocialista e contrario alla politica di neutralità benevola dello Stato nei conflitti fra capitale e lavoro con le stesse vibrazioni del secondo barone toscano, dell'uomo politico cui guarda con maggiore fiducia, anche per una certa analogia dei temperamenti autoritari e schivi, Sidney Sonnino. Idealizza lo Stato del Risorgimento, chiuso contro « neri e rossi », uno Stato che in realtà non esiste più, di cui Giolitti salvaguarda le radici profonde, nel suo sottile e accorto « trasformismo », assecondante le trasformazioni reali della società italiana. Il Paese cambia, e il Corriere si adegua a tale cambiamento di gusti, di mentalità, di posizioni. Esplode il dannunzianesimo; e Albertini, certo il temperamento meno dannunziano fra i direttori del tempo, apre la terza pagina al poeta-vate, diventa il medico dei suoi fallimenti, il consolatorc dei suoi esili, fino a ospitare, con crescente successo di pubblico, le « Canzoni d'oltremare » proprio nei giorni infuocati della guerra di Libia. Giolitti ha consentito quella spedizione oltremare, lo dirà Croce nella Storia d'Italia, quasi come il padre che si rassegna a maritare la figlia, senza entusiasmo, con discrezione; il Corriere, che ha già ospitato la prosa di Enrico Corradini, punta invece tutte le sue carte sulla guerra di Libia, sollecita le vene di uno spirito di riscossa nazionale che porterà lontano, che contiene già brividi di nazionalismo. La biforcazione definitiva fra Albertini e Giolitti (il che, in termini giornalistici, si tradurrà nella biforcazione non meno definitiva fra il Corriere e la Stampa, il quotidiano che resterà fedele al giolittismii fino e oltre il delitto Matteotti) parte dalla svolta del 1911-1912. La stessa che si rinnoverà, in forme più aspre, due anni più tardi, di fronte all'intervento nella grande guerra. Contrario, o perplesso, Giolitti, che valutava le conseguenze rivoluzionarie del suffragio universale, che temeva l'estensione di quel suffragio alle trincee; favorevole Albertini, da quel momento il « secondo presi dente del consiglio », l'uomo che indirizzerà la condotta po litica della guerra, il neo-se ' natore che unirà la milizia Mraa i politica alla difesa e al poten ziamento ulteriore della sua azienda. Con la guerra il Corriere supera il milione di copie. E' il solo giornale che paga gli stipendi interi, o maggiorati, a tutti i redattori combattenti. E' il gir>nmic che utilizza sul fror,ic la schiera dei suoi grandi e popolari inviati, da Barzini a Ojetti, a Civinini. Le scelte di politica estera di Albertini, dopo la grande scalmana interventista, saranno rette e misurate. Albertini si troverà, dopo la guerra, sullo stesso fronte di Bissolati pei la questione adriatica, com batterà la sedizione fiumana del suo amico D'Annunzio (d'accordo una volta tanto con Giolitti). E' la nuova linea che porterà alla risoluta opzione antifascista di Albertini, particolarmente esplicita dopo il giugno '24, dopo il delitto Matteotti. « Gentilissimo Turati »: si legge nell'epistolario albcrtiniano, dove si infittiscono le lettere al leader socialista riformista, una volta combattuto in blocco col suo Giolitti. Dal giugno '24 al novembre '25, il Corriere resiste: sequestrato, in molte zone bruciato, dovunque contrasta to. Gli squadristi non attaccano il palazzo di via Solferino, non bruciano la sede del Corriere come quella del['Avanti! Arrivano alle soglie ma si arrestano 11. Ci vorrà un cavillo giuridico per estromettere il direttore gerente, press'a poco negli stessi giorni in cui finisce a Torino la Rivoluzione liberale. Albertini strapperà un solo diritto, quello di scrivere il suo « commiato ». Neanche Mussolini si sentirà di negarglielo. E l'ombra di Albertini si prolungherà in quel giornale per decenni, modererà la stessa « fascistizzazione » del quotidiano, avviata con passo scal tro e felpato da Ugo 0|etti, continuata ila Aldo Borell' ma solo limitatamente alla prima pagina (con la salvaguardia di una zona di riposo e di tregua nella < terza », l'erede della gloriosa e peculiare creatura albertiniana che alimenterà una generazione di nuovi giornalisti, che lancerà, pet fare un nome. Montanelli). Quando io arrivai al Cor riere per la prima volta, giovanissimo redattore chiamato da Missiroli alla line del 1952, Dino Buzza ti mi disse: « Vedi, qui anche le mura sono impregnate dello spirito di Luigi Albertini. Egli controlla tutto, con mosse misteriose e invisibili ». Capii meglio la battuta, leggendo più tardi il Deserto dei tartari. Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Italia, Libia, Modena, Roma, Torino